Intervista a Paolo Rumiz, a cura di Simone Siliani
Paolo Rumiz ha compiuto, la scorsa estate un viaggio “garibaldino”, raccontato su “la Repubblica”, ricercando le tracce profonde del mito unitario. Lontano da celebrazioni istituzionali retoriche, il viaggio “in bilico fra incanto e disillusione”, ha indagato le pieghe di una società dove la memoria ha fondato un’ideale profondo, un senso nuovo del progetto di una comunità coesa e unita, anche in opposizione al disfacimento progressivo, talvolta silenzioso ma più spesso urlato che s’avanza al Nord. Sono temi che vengono ripresi nell’intervista (registrata in occasione della presenza a Firenze dello scrittore per un’iniziativa culturale) qui riportata.
D. E’ già nel viaggiare, nel decidere questa ricerca, il senso di una disperata speranza che questo paese possa salvarsi? Che Italia hai trovato in questo viaggio?
R. Premesso: in tutti i miei viaggi italiani ho trovato un’Italia minore migliore della maggiore. Questo sia per le mie scelte periferiche, sia per il modo di viaggiare che esclude l’arroganza dell’approccio e che, come tale sollecita più facilmente l’incontro con le persone affini. Alcune cose che posso dire è che persino nei luoghi più malfamati come l’interno dell’Aspromonte con la n’drangheta e l’hinterland catanese, luoghi dove senti una certa violenza nell’aria, la senti forte, senti che c’è un anti-Stato che lavora e che tu sei all’estero in qualche modo; però anche lì, il mio modo di attraversare i territori mi faceva dire “mio Dio, ma è possibile che io non incontri mai una persona negativa e arrogante?”. Proprio perché questo modo di muoversi “rastrella” si può dire, drena il meglio del paese. E questa è una delle cose che non fanno più i giornali e la politica. Io sono convinto che muovendosi così tu puoi passare anche i territori più difficili dell’Afghanistan, dell’Iraq. Il viaggio garibaldino ha disgelato che esiste un’enorme fetta di italiani che si riconoscono nel mito unitario – non nella storia; la storia può essere piena di cose negative – ma si trovano di fronte ad un mondo politico e culturale che non li ascolta. Noi siamo divisi tra retorica patriottarda o stanca retorica istituzionale, insincera, da una parte; e dall’altra i vittimismi incrociati del nord, del centro e del sud e le loro spinte “balcaniche”. Così chi non si riconosce né nell’una né nell’altra cosa, non ha alcuna sponda. Così ho messo una camicia rossa per segnalarmi come inequivocabilmente erede della parte migliore del Risorgimento. E l’ho fatto per dire che è insensato e autolesionista prendersela con Garibaldi perché egli è fra i perdenti dell’Unità. Lui era colui che gia nel 1861 scrisse “io nel sud non ci torno più perché mi prenderebbero a sassate per quello che è arrivato di così diverso rispetto a quello che promettevo”. Quello che ferisce è l’incapacità, la scarsa maturità di un paese che non riesce a costruire un proprio mito unitario senza tacere sulle parti negative dell’unificazione. Esempio: gli Stati Uniti sono nati sullo sterminio dei pellirosse e su una guerra civile che ha fatto 4 milioni di morti (come 1000 Vietnam), un genocidio, un disastro; eppure ha potuto costruire un proprio patriottismo su dei valori. Io questo ho tentato di fare: di parlare di Garibaldi senza tacere le cose negative del Risorgimento, gli imbrogli, i voltagabbana, le repressioni, le stragi, l’estromissione dai quadri del paese di coloro che avevano servito fedelmente i regni precedenti; e invece l’inclusione nell’apparato dello Stato di tutti i voltagabbana, i traditori. Per quello perdemmo la terza Guerra d’Indipendenza, perché i quadri dell’esercito furono costruiti da ufficiali che avevano tradito i loro governi precedenti; cioè li abbiamo premiati e da quel momento è iniziata la disgregazione del paese. Nel momento stesso dell’unione è cominciato il disastro.
D. Rumiz è uomo di confine, per nascita e per elezione, vissuti e raccontati come luoghi fecondi di incontri ma anche di conflitti: quale senso può da questa particolare prospettiva un racconto sull’unità del paese?
R. Intanto, in quanto uomo di confine ho vissuto la disintegrazione balcanica e ho visto tantissimi elementi che suonano a pericolo anche per l’Italia. Un lettore mi ha scritto una cosa che mi ha fatto venire i brividi: come sapete la Jugoslavia aveva come prefisso telefonico lo 0038; quando si è disintegrata l’unica cosa che i nuovi Stati hanno conservato in comune è lo 0038 cui è stata aggiunta l’appendice (1 per la Serbia, 6 per la Slovenia, 5 per la Croazia, ecc.). Ecco, questo lettore mi ha detto: “pensaci Paolo, anche un talmudista lo direbbe: dopo lo 0038 verrà lo 0039; così noi avremo lo 0039-5 per l’Appennino Tosco-Emiliano, 0039-4 per il nord-est, 0039-9 per il sud” e il numero di telefono – come dico nel mio libro “La cotogna di Istanbul” – sarà l’unica cosa che ci unirà; quella radice del prefisso. E ho visto anche, soprattutto, come, in modo molto simile a quanto accade in Italia in questa crisi economica devastante, noi abbiamo una classe parassitaria (una Cupola economico-mafiosa) che si sta mangiando il paese e che non accetterà mai di pagare il conto di ciò che ha fatto e quindi costruisce ad arte attraverso i giornali e le televisioni che controlla, un’emergenza stranieri, un’emergenza etnica che impedisce di vedere chi è che ci sta mangiando la “merenda”. L’occultamento del nemico interno attraverso l’enfasi sul nemico esterno. Che è esattamente ciò che è accaduto in Jugoslavia, fino a quando il nemico interno è saltato fuori attraverso l’aggressione di una Repubblica nei confronti dell’altra. Ecco noi viviamo una situazione pre-Jugoslavia: potrebbe degenerare molto rapidamente, anche senz’armi. La seconda cosa è che proprio io che sono un italiano sui generis, mezzo tedesco, mezzo slavo, mezzo friulano, ho i numeri per rendermi conto che la nazione non è genealogia, non è DNA, non è sangue, ma è appartenenza comune ad un territorio da parte di genti diverse. E come tale trovo che l’Italia sia un’espressione geografica e linguistica fantasticamente unitaria nella sua pluralità perché nel chiacchiericcio del piemontese e nel confabulare del siciliano esiste qualcosa di comune. Lo diceva anche Dante. Io sento questa mia lingua, alla quale ho appena dedicato un folle libro in endecasillabi (quindi il massimo della bellezza della lingua italiana), come la mia casa, la mia trincea, la mia appartenenza, il mio baluardo, l’ultima cosa che mi rimane. La mia lingua comune: è bella, caspita. Quando sono all’estero la recito pian piano, a bassa voce, per non sentirmi perduto. E’ successo questo: proprio io che consideravo la bandiera ostentata come qualcosa di fascista, ho dovuto prenderla e portarla in giro per spirito di contraddizione, perché non sopportavo di vedere della gente buttare nel cesso quel simbolo. Soprattutto non sopportavo vedere gli altri tacere rispetto a tutto questo, cominciare a ragionare in termini disgreganti.
D. Quindi hai un interessante punto di vista: da un lato quello di ripescare le radici profonde del mito unitario e dall’altro però questa capacità di vedere che questo mito ha una possibilità di resistere solo se si rinnova. Chi ci porta un po’ di speranza in questo senso sono i nuovi italiani, non nati sul suolo dello Stivale ma che si sentono e vivono quali componenti di una comunità alla cui crescita contribuiscono; culture non autoctone che tornano ad incrociarsi e a contaminarsi formando una nuova e continuamente cangiante cultura “nazionale”. Sembra una corrente che scorre in senso contrario a quella che vorrebbe escludere gli elementi esterni, apportatori di disordine. Forse sta proprio qui, l’attualità della riflessione sul 150° dell’Unità d’Italia che ci apprestiamo a celebrare?
R. Durante questo viaggio ho ricevuto una tale quantità di lettere di persone che mi narravano delle storie particolari, talmente tante che non ce l’ho fatta a leggerle tutte perché dovevo portare avanti il mio lavoro. E ciò che quelle lettere mi dicevano era che non è la grande Storia che dovete narrare (Solferino, Calatafimi); quello che dovete narrare è l’epopea della camicia rossa che si imbarca a Genova e poi si sposa con una donna del sud. E’ la storia, che racconto nel viaggio, del garibaldino che alla fine dell’epopea viene rifiutato dall’esercito italiano ed è costretto ad emigrare e a combattere per il generale Custer negli Stati Uniti; sono i soldati dei Borboni che anche loro devono emigrare e si ritrovano all’estero a combattere la Guerra Civile americana a fianco o contro i loro nemici di ieri. Sono queste storie minori quelle che dobbiamo raccontare. E questo non lo vedo fare. Non so cosa farà Minoli che ha in mano il coordinamento di queste attività, ma non sento il segnale di qualcosa di diverso. C’è tanto festeggiamento spontaneo.