Scuola/Italia: classi differenziali per stranieri?
Melita Richter Malabotta
Una nota stonata nell’“anno europeo dell’interculturalità”è data dalle recenti proposte, approvate nel Parlamento italiano, per la formazione di classi separate per stranieri. Per una scuola interculturale e per l’inserimento degli alunni stranieri è necessario prevedere l’incontro,non la separazione, la piena immersione, non la differenziazione senzacontatto, una classe multietnica che valorizza l’ascolto e il dialogo, non una scuola che stigmatizza la differenza.
L’interculturalità non appartiene ai fenomeni naturali, ma deve essere voluta e provocata. L’educazione interculturale non avviene per caso: è una forma di educazione che va provocata e progettata.
Duccio Demetrio
Duccio Demetrio
Inclusione e valorizzazione della diversità nell’universo scuola
Il diritto all’istruzione iscritto nella Convenzione internazionale dei diritti dell’infanzia, approvata in sede ONU nel 1989 e ratificata dall’Italia nel 1991 rappresenta allo stesso tempo il pilastro e la cornice normativa all’interno della quale si è mossa la scuola italiana negli ultimi decenni, con particolare attenzione all’elaborazione di strategie valide per il riconoscimento, l’inclusione e la valorizzazione di varie forme di diversità, divenute ormai strutturali all’universo scuola e alla stessa società italiana.
Come premessa al nostro lavoro, ricordiamo le prospettive principali adottate dall’Unione Europea riguardanti la scuola e l’istruzione:
– l’istruzione è un diritto di ogni bambino, quindi anche di quello che non ha la cittadinanza italiana. Il bambino è portatore di diritti non solo come “figlio” data la sua minore età, ma anche come individuo in sé, indipendentemente dalla posizione dei genitori e indipendentemente dalla presenza dei genitori sul nostro territorio.
– questo diritto include l’iscrizione a scuola, senza dover conoscere preventivamente la lingua d’insegnamento del paese di accoglienza.
– l’istruzione scolastica è parallelamente un dovere che gli adulti devono rispettare e tutelare, in particolare per quanto riguarda la scuola dell’obbligo.
– tutti devono poter contare su pari opportunità in materia di accesso, di riuscita scolastica e di orientamento.
Queste direttive non escludono la possibilità di attuazioni di alcune azioni specifiche, denominate anche “politiche selettive” per i minori immigrati, pensate per il raggiungimento del livello di parità e la riduzione dei rischi di esclusione.
Riteniamo pertanto che la proposta di realizzare classi di inserimento separate, le cosiddette “classi ponte” per gli alunni stranieri, contenuta nella mozione presentata ed approvata alla Camera non sia in sintonia con gli obbiettivi preposti, anzi, riteniamo che essa possa mettere in forte dubbio le consolidate esperienze che la scuola aveva raccolto nel campo dell’educazione interculturale.
Cercheremo in seguito di approfondire alcuni concetti che hanno inciso sull’orientamento della scuola italiana immersa nell’ampio contesto di profondi mutamenti demografici della società esposta al quotidiano confronto con la diversità.
Il diritto all’istruzione iscritto nella Convenzione internazionale dei diritti dell’infanzia, approvata in sede ONU nel 1989 e ratificata dall’Italia nel 1991 rappresenta allo stesso tempo il pilastro e la cornice normativa all’interno della quale si è mossa la scuola italiana negli ultimi decenni, con particolare attenzione all’elaborazione di strategie valide per il riconoscimento, l’inclusione e la valorizzazione di varie forme di diversità, divenute ormai strutturali all’universo scuola e alla stessa società italiana.
Come premessa al nostro lavoro, ricordiamo le prospettive principali adottate dall’Unione Europea riguardanti la scuola e l’istruzione:
– l’istruzione è un diritto di ogni bambino, quindi anche di quello che non ha la cittadinanza italiana. Il bambino è portatore di diritti non solo come “figlio” data la sua minore età, ma anche come individuo in sé, indipendentemente dalla posizione dei genitori e indipendentemente dalla presenza dei genitori sul nostro territorio.
– questo diritto include l’iscrizione a scuola, senza dover conoscere preventivamente la lingua d’insegnamento del paese di accoglienza.
– l’istruzione scolastica è parallelamente un dovere che gli adulti devono rispettare e tutelare, in particolare per quanto riguarda la scuola dell’obbligo.
– tutti devono poter contare su pari opportunità in materia di accesso, di riuscita scolastica e di orientamento.
Queste direttive non escludono la possibilità di attuazioni di alcune azioni specifiche, denominate anche “politiche selettive” per i minori immigrati, pensate per il raggiungimento del livello di parità e la riduzione dei rischi di esclusione.
Riteniamo pertanto che la proposta di realizzare classi di inserimento separate, le cosiddette “classi ponte” per gli alunni stranieri, contenuta nella mozione presentata ed approvata alla Camera non sia in sintonia con gli obbiettivi preposti, anzi, riteniamo che essa possa mettere in forte dubbio le consolidate esperienze che la scuola aveva raccolto nel campo dell’educazione interculturale.
Cercheremo in seguito di approfondire alcuni concetti che hanno inciso sull’orientamento della scuola italiana immersa nell’ampio contesto di profondi mutamenti demografici della società esposta al quotidiano confronto con la diversità.
Un luogo privilegiato di costruzione di cittadinanza e civiltà
Uno dei primi temi su cui vorremmo riflettere è il concetto dell’interculturalità e il suo rapporto con l’istruzione e la scuola
La scuola è sempre stata un’istituzione che trasmette, in primo luogo, la cultura e i saperi necessari per la formazione dell’identità nazionale, dell’essere nazionale; un luogo privilegiato di costruzione di cittadinanza e di civiltà. Nel secondo, il suo compito è di appropriarsi dell’eredità universale dell’uomo, della sua storia, e della cultura dell’umanità. Non vi è mistero nella considerazione del fatto che nel raggiungimento di questi obbiettivi la scuola si sia servita per lo più di ottiche nazionali e/o europocentriche. Rarament,e una vera metodologia didattica di decostruzione dell’Io narrante nazionale nel vero senso “levinasiano” è stata tentata nella scuola italiana e, in genere, quella europea. Il processo di migrazione rappresenta una sfida aperta in questo campo. La scuola multietnica non è più un’eccezione né il risultato di un’emergenza circoscritta; essa diventa parte strutturale della società sottoposta ad un forte cambiamento demografico e culturale.
Essa rispecchia, e a volte contrasta (quando gli argomenti di chiusura e di esclusione diventano prevalenti nella realtà sociale) il clima che si diffonde in una società in rapido cambiamento dovuto al costante flusso immigratorio, sempre più eterogeneo, con crescente presenza di donne e di minori stranieri in età scolastica.
L’educazione interculturale non si presenta, quindi, come un’opzione meramente teorica, imposta, ma come la maturata consapevolezza della posizione dell’istituzione scuola all’interno della società contemporanea, non più nazionalmente e culturalmente omogenea. Per cui, accanto alle norme di una cultura della società che accoglie è necessario acconsentire, anche nei banchi di scuola, al riconoscimento di un pluralismo culturale e normativo che si presenta nella quotidianità in modo sempre più vistoso. Il rispetto e la difesa della propria cultura deve fare i conti con il rispetto e la difesa della cultura altrui attraverso una pratica reale di scambio, aperta ai fenomeni di meticciamento.
In realtà – scrive Diana Cesarin – non è la prima volta che la scuola italiana ha a che fare con la multiculturalità. Le classi erano multiculturali anche prima dell’arrivo in termini numericamente significativi di migranti o di figli di migranti perché raccoglievano figli di contadini, di artigiani, di professionisti o, nelle città industrializzate del nord, i figli degli emigrati meridionali.
La scuola è sempre stata un’istituzione che trasmette, in primo luogo, la cultura e i saperi necessari per la formazione dell’identità nazionale, dell’essere nazionale; un luogo privilegiato di costruzione di cittadinanza e di civiltà. Nel secondo, il suo compito è di appropriarsi dell’eredità universale dell’uomo, della sua storia, e della cultura dell’umanità. Non vi è mistero nella considerazione del fatto che nel raggiungimento di questi obbiettivi la scuola si sia servita per lo più di ottiche nazionali e/o europocentriche. Rarament,e una vera metodologia didattica di decostruzione dell’Io narrante nazionale nel vero senso “levinasiano” è stata tentata nella scuola italiana e, in genere, quella europea. Il processo di migrazione rappresenta una sfida aperta in questo campo. La scuola multietnica non è più un’eccezione né il risultato di un’emergenza circoscritta; essa diventa parte strutturale della società sottoposta ad un forte cambiamento demografico e culturale.
Essa rispecchia, e a volte contrasta (quando gli argomenti di chiusura e di esclusione diventano prevalenti nella realtà sociale) il clima che si diffonde in una società in rapido cambiamento dovuto al costante flusso immigratorio, sempre più eterogeneo, con crescente presenza di donne e di minori stranieri in età scolastica.
L’educazione interculturale non si presenta, quindi, come un’opzione meramente teorica, imposta, ma come la maturata consapevolezza della posizione dell’istituzione scuola all’interno della società contemporanea, non più nazionalmente e culturalmente omogenea. Per cui, accanto alle norme di una cultura della società che accoglie è necessario acconsentire, anche nei banchi di scuola, al riconoscimento di un pluralismo culturale e normativo che si presenta nella quotidianità in modo sempre più vistoso. Il rispetto e la difesa della propria cultura deve fare i conti con il rispetto e la difesa della cultura altrui attraverso una pratica reale di scambio, aperta ai fenomeni di meticciamento.
In realtà – scrive Diana Cesarin – non è la prima volta che la scuola italiana ha a che fare con la multiculturalità. Le classi erano multiculturali anche prima dell’arrivo in termini numericamente significativi di migranti o di figli di migranti perché raccoglievano figli di contadini, di artigiani, di professionisti o, nelle città industrializzate del nord, i figli degli emigrati meridionali.
L’opera di don Milani
E l’opera di don Milani è lì a ricordarci quanto e come quella scuola fosse discriminante e respingente. Incapace di riconoscere le diversità se non come deficit, di pensare all’uguaglianza se non come emancipazione. Rischi che si ripropongono oggi quando si pensa all’integrazione come sinonimo di assimilazione o quando il rispetto dell’identità maschera malamente il razzismo differenzialista.
L’educazione interculturale non si esaurisce sui banchi di scuola o tra le sue mura, dove realizzare i programmi curricolari oppure riservare una giornata o un’intera settimana “all’intercultura”. La nostra convinzione è in piena sintonia con la CM 205/’90 che recita così: “L’educazione interculturale avvalora il significato di democrazia considerato che la diversità culturale va pensata come risorsa positiva per i complessi processi di crescita della società e delle persone”.
Questo orientamento è confermato e aggiornato con le “Linee guida per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri” del MIUR: “L’educazione interculturale rifiuta sia la logica dell’assimilazione, sia la costruzione ed il rafforzamento di comunità etniche chiuse ed è orientata a favorire il confronto, il dialogo, il reciproco arricchimento entro la convivenza delle differenze”.
Le competenze che la scuola ha acquisito negli ultimi decenni con grande impegno, con fatiche e competenze dei dirigenti scolastici, degli insegnanti e dei mediatori culturali impegnati al loro fianco sia nelle politiche di accoglienza e di inserimento degli alunni immigrati che nella valorizzazione del loro bagaglio linguistico e culturale, non hanno avuto una crescita lineare, né hanno ottenuto un riconoscimento scontato. Spesso si è stati esposti alle oscillazioni nell’interpretazione del significato della scuola interculturale, e non di rado il passo verso un adottamento della prospettiva interculturale è stato ostacolato. Altre volte si è avuta la sensazione di una vera stagnazione. Allora, le domande si moltiplicavano e gli impedimenti si individuavano non tanto nell’ambito scolastico, quanto in quello del senso comune accompagnato da una normativa che trattava la presenza dello straniero come espressione dell’emergenza.
Ricordiamo i quesiti che negli ormai lontani anni novanta poneva Diana Cesarin del Movimento di Cooperazione Educativa, che ci sembrano sorprendentemente attuali:
“Si è forse fermata la ricerca che il MCE porta avanti sul terreno dell’educazione interculturale? O è la situazione, il contesto che su queste problematiche è sostanzialmente fermo?
Temo di dover rispondere che sul versante delle politiche dell’immigrazione ci siano purtroppo da registrare dei passi indietro (basti pensare alla filosofia della legge Bossi–Fini), sul versante dell’integrazione e dell’inclusione scolastica i problemi di fondo mi sembrano gli stessi, aggravati sul versante scolastico, da una serie di interventi legislativi (la L. 53 di riforma del sistema dell’istruzione in primis, ma non solo) che destrutturano la funzione inclusiva e di promozione sociale della scuola. Contemporaneamente sul versante del senso comune si registra l’inasprirsi dei vissuti di paura dello “straniero”, il radicarsi dell’immagine dell’altro come nemico, il rafforzamento di visioni localistiche in versione più o meno xenofoba o razzista.”
E l’opera di don Milani è lì a ricordarci quanto e come quella scuola fosse discriminante e respingente. Incapace di riconoscere le diversità se non come deficit, di pensare all’uguaglianza se non come emancipazione. Rischi che si ripropongono oggi quando si pensa all’integrazione come sinonimo di assimilazione o quando il rispetto dell’identità maschera malamente il razzismo differenzialista.
L’educazione interculturale non si esaurisce sui banchi di scuola o tra le sue mura, dove realizzare i programmi curricolari oppure riservare una giornata o un’intera settimana “all’intercultura”. La nostra convinzione è in piena sintonia con la CM 205/’90 che recita così: “L’educazione interculturale avvalora il significato di democrazia considerato che la diversità culturale va pensata come risorsa positiva per i complessi processi di crescita della società e delle persone”.
Questo orientamento è confermato e aggiornato con le “Linee guida per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri” del MIUR: “L’educazione interculturale rifiuta sia la logica dell’assimilazione, sia la costruzione ed il rafforzamento di comunità etniche chiuse ed è orientata a favorire il confronto, il dialogo, il reciproco arricchimento entro la convivenza delle differenze”.
Le competenze che la scuola ha acquisito negli ultimi decenni con grande impegno, con fatiche e competenze dei dirigenti scolastici, degli insegnanti e dei mediatori culturali impegnati al loro fianco sia nelle politiche di accoglienza e di inserimento degli alunni immigrati che nella valorizzazione del loro bagaglio linguistico e culturale, non hanno avuto una crescita lineare, né hanno ottenuto un riconoscimento scontato. Spesso si è stati esposti alle oscillazioni nell’interpretazione del significato della scuola interculturale, e non di rado il passo verso un adottamento della prospettiva interculturale è stato ostacolato. Altre volte si è avuta la sensazione di una vera stagnazione. Allora, le domande si moltiplicavano e gli impedimenti si individuavano non tanto nell’ambito scolastico, quanto in quello del senso comune accompagnato da una normativa che trattava la presenza dello straniero come espressione dell’emergenza.
Ricordiamo i quesiti che negli ormai lontani anni novanta poneva Diana Cesarin del Movimento di Cooperazione Educativa, che ci sembrano sorprendentemente attuali:
“Si è forse fermata la ricerca che il MCE porta avanti sul terreno dell’educazione interculturale? O è la situazione, il contesto che su queste problematiche è sostanzialmente fermo?
Temo di dover rispondere che sul versante delle politiche dell’immigrazione ci siano purtroppo da registrare dei passi indietro (basti pensare alla filosofia della legge Bossi–Fini), sul versante dell’integrazione e dell’inclusione scolastica i problemi di fondo mi sembrano gli stessi, aggravati sul versante scolastico, da una serie di interventi legislativi (la L. 53 di riforma del sistema dell’istruzione in primis, ma non solo) che destrutturano la funzione inclusiva e di promozione sociale della scuola. Contemporaneamente sul versante del senso comune si registra l’inasprirsi dei vissuti di paura dello “straniero”, il radicarsi dell’immagine dell’altro come nemico, il rafforzamento di visioni localistiche in versione più o meno xenofoba o razzista.”
Una direzione sbagliataPassi indietro negli anni novanta, passi indietro ai giorni nostri. La proposta delle classi differenziate (leggi: separate) per gli alunni stranieri ci sembra davvero un gran balzo indietro, o almeno in una direzione sbagliata.
Sul tema, la nota pedagogista Graziella Favaro, ha preso una posizione netta e in una breve e acuta analisi sull’infelice proposta ministeriale, ha evidenziato le cause della sua inefficacia. Tra l’altro, Favaro ha cercato di decostruire la portata della necessità della formazione delle classi sperate che dovrebbero in primo luogo impartire l’insegnamento dell’italiano L2 e si è posta la questione della consistenza del numero delle presenze dei bambini di nuova immigrazione “che non parlano una parola di italiano”.
La risposta prende in considerazione più piani. In primo luogo quello dei bambini delle famiglie immigrate “che sono nati in Italia (di cui più del 70% sono inseriti nelle scuole dell’infanzia; circa la metà di coloro che frequentano la scuola primaria) e presumibilmente diventeranno cittadini italiani de jure alla maggiore età; un’altra parte consistente è giunta in Italia da anni e ha già appreso la seconda lingua; circa il 10% del totale degli alunni stranieri è costituito da bambini e ragazzi di recente immigrazione, in situazione quindi di non italofonia.
Si tratta di circa 50.000 alunni (se si escludono i piccoli inseriti nella scuola dell’infanzia), la metà dei quali frequenta la scuola primaria, mentre la restante metà è distribuita fra scuola secondaria di primo e secondo grado.
L’integrazione dei bambini e dei ragazzi stranieri è quindi un tema più “largo”, che non riguarda solo l’apprendimento della lingua, ma che ci coinvolge tutti, nella gestione quotidiana della convivenza e dello scambio all’interno di classi eterogenee.”
In seguito, la studiosa ha preso in considerazione il concetto di lingua nella sua duplice veste; come mezzo di comunicazione e come strumento per imparare.
In ambedue i casi la conclusione sarà la stessa:
“L’apprendimento della lingua per comunicare è, in genere, piuttosto rapido e avviene soprattutto grazie all’”immersione”, agli scambi quotidiani e al contatto con i coetanei. La classe di soli stranieri rischia quindi di rallentare questa fase di apprendimento, anziché favorirla.”
A pari passo, “l’apprendimento dell’italiano per lo studio e per imparare le diverse materie scolastiche che richiede tempi più prolungati, avviene – con i dovuti supporti – insieme agli altri alunni della classe. (corsivo nostro) (…) La classe formata da soli stranieri, che raggruppa alunni di età e classe differenti con l’obiettivo dell’apprendimento della nuova lingua, non propone agli alunni immigrati i contenuti curricolari presentati nel frattempo ai compagni di banco, e rischia quindi di bloccare il loro apprendimento scolastico e di demotivarli, mentre invece si impara l’italiano anche studiando la matematica, la geografia, le scienze…”
Alla stessa conclusione ha portato l’esperienza tedesca, inizialmente conosciuta come pedagogia speciale, o pedagogia per i figli degli immigrati, che, secondo Gerwald Wallnoffer, esperto in pedagogia interculturale, non ha fatto altro che “diffondere il pregiudizio che i bambini stranieri nell’età dell’obbligo non fossero in grado di frequentare le classi normali delle scuole statali. Questo approccio pedagogico”, secondo Wallnoffer, “riduceva l’”alterità” degli stranieri e dei loro figli all’etnia e alla lingua, sottovalutando il fatto che questi soggetti provenivano dalle classi sociali più umili o appartenevano a minoranze etniche e religiose: fattori che rendono ancora più complesso il rapporto con la scuola”.
L’esempio ci sembra particolarmente importante perché introduce una gamma di fattori più ampi nella valutazione dell’apprendimento linguistico e, indirettamente, dell’integrazione e del successo scolastico, elementi che eccedono la mera cornice didattica e abbracciano la società civile, istituzioni scolastiche e il territorio.
Ad ogni modo, una pedagogia speciale – alla quale ci richiama fortemente la mozione sulle classi separate presentata alla Camera – considera gli stranieri come “problema” al quale l’unica “medicina” da somministrare è l’apprendimento linguistico in classi separate, la “medicina” che odora di una esplicita voglia di assimilazione e di risveglio di fantasmi etno-culturali. L’esperienza tedesca ha poi dimostrato come la pura promozione linguistica non fosse affatto sufficiente a favorire un’autentica integrazione dei bambini stranieri.
Sul tema, la nota pedagogista Graziella Favaro, ha preso una posizione netta e in una breve e acuta analisi sull’infelice proposta ministeriale, ha evidenziato le cause della sua inefficacia. Tra l’altro, Favaro ha cercato di decostruire la portata della necessità della formazione delle classi sperate che dovrebbero in primo luogo impartire l’insegnamento dell’italiano L2 e si è posta la questione della consistenza del numero delle presenze dei bambini di nuova immigrazione “che non parlano una parola di italiano”.
La risposta prende in considerazione più piani. In primo luogo quello dei bambini delle famiglie immigrate “che sono nati in Italia (di cui più del 70% sono inseriti nelle scuole dell’infanzia; circa la metà di coloro che frequentano la scuola primaria) e presumibilmente diventeranno cittadini italiani de jure alla maggiore età; un’altra parte consistente è giunta in Italia da anni e ha già appreso la seconda lingua; circa il 10% del totale degli alunni stranieri è costituito da bambini e ragazzi di recente immigrazione, in situazione quindi di non italofonia.
Si tratta di circa 50.000 alunni (se si escludono i piccoli inseriti nella scuola dell’infanzia), la metà dei quali frequenta la scuola primaria, mentre la restante metà è distribuita fra scuola secondaria di primo e secondo grado.
L’integrazione dei bambini e dei ragazzi stranieri è quindi un tema più “largo”, che non riguarda solo l’apprendimento della lingua, ma che ci coinvolge tutti, nella gestione quotidiana della convivenza e dello scambio all’interno di classi eterogenee.”
In seguito, la studiosa ha preso in considerazione il concetto di lingua nella sua duplice veste; come mezzo di comunicazione e come strumento per imparare.
In ambedue i casi la conclusione sarà la stessa:
“L’apprendimento della lingua per comunicare è, in genere, piuttosto rapido e avviene soprattutto grazie all’”immersione”, agli scambi quotidiani e al contatto con i coetanei. La classe di soli stranieri rischia quindi di rallentare questa fase di apprendimento, anziché favorirla.”
A pari passo, “l’apprendimento dell’italiano per lo studio e per imparare le diverse materie scolastiche che richiede tempi più prolungati, avviene – con i dovuti supporti – insieme agli altri alunni della classe. (corsivo nostro) (…) La classe formata da soli stranieri, che raggruppa alunni di età e classe differenti con l’obiettivo dell’apprendimento della nuova lingua, non propone agli alunni immigrati i contenuti curricolari presentati nel frattempo ai compagni di banco, e rischia quindi di bloccare il loro apprendimento scolastico e di demotivarli, mentre invece si impara l’italiano anche studiando la matematica, la geografia, le scienze…”
Alla stessa conclusione ha portato l’esperienza tedesca, inizialmente conosciuta come pedagogia speciale, o pedagogia per i figli degli immigrati, che, secondo Gerwald Wallnoffer, esperto in pedagogia interculturale, non ha fatto altro che “diffondere il pregiudizio che i bambini stranieri nell’età dell’obbligo non fossero in grado di frequentare le classi normali delle scuole statali. Questo approccio pedagogico”, secondo Wallnoffer, “riduceva l’”alterità” degli stranieri e dei loro figli all’etnia e alla lingua, sottovalutando il fatto che questi soggetti provenivano dalle classi sociali più umili o appartenevano a minoranze etniche e religiose: fattori che rendono ancora più complesso il rapporto con la scuola”.
L’esempio ci sembra particolarmente importante perché introduce una gamma di fattori più ampi nella valutazione dell’apprendimento linguistico e, indirettamente, dell’integrazione e del successo scolastico, elementi che eccedono la mera cornice didattica e abbracciano la società civile, istituzioni scolastiche e il territorio.
Ad ogni modo, una pedagogia speciale – alla quale ci richiama fortemente la mozione sulle classi separate presentata alla Camera – considera gli stranieri come “problema” al quale l’unica “medicina” da somministrare è l’apprendimento linguistico in classi separate, la “medicina” che odora di una esplicita voglia di assimilazione e di risveglio di fantasmi etno-culturali. L’esperienza tedesca ha poi dimostrato come la pura promozione linguistica non fosse affatto sufficiente a favorire un’autentica integrazione dei bambini stranieri.
Un “modello tedesco”?
Abbiamo riportato l’esempio tedesco, perché di solito si cerca di indicare in esso un consolidato “modello tedesco” di integrazione. Mentre in realtà ci sono solo alcuni Länder che ancora lo praticano, visto che il metodo si è dimostrato errato e dalla pedagogia per gli stranieri si è progressivamente passato all’apprendimento interculturale o alla pedagogia interculturale.
Anche gli altri Paesi europei, nella loro grande maggioranza, come ricorda Favaro, seguono il modello integrato, un modello che “prevede l’inserimento da subito nella classe comune e contemporaneamente l’insegnamento mirato della seconda lingua per alcune ore settimanali (da 6 ore a 10 a seconda dell’età, della lingua d’origine, dei bisogni linguistici.), radunando in questi momenti “dedicati” gli alunni, anche al di fuori della classe, in piccoli gruppi.”
Qui emergono alcuni elementi chiave indispensabili per una efficiente integrazione degli alunni immigrati: si tratta di “insegnamento mirato” che pone davanti alla scuola esigenze della formazione di un corpo docente con competenze specifiche, la loro presenza nelle aule scolastiche come una risorsa stabile, prevede inoltre l’utilizzo da parte delle scuole di strumenti e supporti aggiuntivi come la valorizzazione delle competenze pregresse degli alunni stranieri, l’impiego di mediatori culturali, l’uso di librerie interculturali e altri strumenti didattici innovativi, moduli mirati e intensivi con sempre contemporanea immersione in classe multietnica, una programmazione e una valutazione differenziata, gli interventi didattici sul singolo, ma anche sulla classe intera, la comunicazione con le famiglie, il confronto e la diffusione delle buone pratiche… La scuola inoltre, deve dotarsi di un protocollo di accoglienza, che fornisca adeguate garanzie di un positivo inserimento sia per l’alunno che entra sia per la classe che lo accoglie.
Sono questi alcuni degli strumenti che portano all’adempimento dell’obbiettivo di pari opportunità per tutti preposti dalla scuola interculturale.
Molti passi in questa direzione sono stati fatti negli ultimi due decenni; le buone pratiche di integrazione degli alunni stranieri sono state costruite e diffuse a livello nazionale e sono diventate patrimonio delle scuole come degli Enti locali. La normativa fin qui prodotta ha promosso e sostenuto una scuola inclusiva, accogliente, interculturale.
D’altro canto, gli insegnanti, i pedagogisti, gli esperti dell’educazione interculturale sono convinti che ogni misura che seleziona e separa intere categorie di persone, è a favore della discriminazione. Tanto più diventa necessario operare per una scuola inclusiva, che accolga tutti i bambini e le bambine, che si ponga il problema di riconoscere e valorizzare tutte le culture, una scuola che curi la possibilità di co-evolvere attraverso l’interazione fra diversità. Ma, ricordiamo che la scuola viene chiamata ad improntare la propria attività su un piano interculturale anche in assenza di alunni stranieri, perché questa è la sfida pressante della contemporaneità.
Per gli insegnanti del MCE è accertato che “il metodo più naturale ed efficace per imparare a parlare e scrivere i propri pensieri in un’altra lingua, sia la via diretta (full immersion) in condizioni di comunicazione ascolto e dialogo, le sole capaci di dare senso all’apprendimento.
Chi educa sa che mettere insieme bambini di sesso diverso, di età diverse, di colore diverso, di diverse provenienze linguistiche, culturali, sociali e religiose è la strada consolidata (e più bella) per contribuire a creare un mondo nuovo, capace di scambio, rispetto, convivenza.”
Un gruppo di esperti del mondo accademico, culturale e sociale convocato dallo stesso Ministero della pubblica istruzione e costituitosi in Osservatorio nazionale per l’integrazione degli alunni stranieri e per l’educazione interculturale dopo due anni di lavoro ha elaborato un documento dal titolo significativo: “La via italiana all’integrazione e alla scuola interculturale”. Il documento è pubblicato sul sito del Ministero dal mese di ottobre 2007. Uno degli assiomi adottati nel testo si riferisce alla scuola italiana come scuola interculturale, ovvero una scuola che cura “la promozione del dialogo e del confronto tra le culture – per tutti gli alunni e a tutti i livelli: insegnamento, curricoli, didattica, discipline, relazioni, vita della classe. Scegliere l’ottica interculturale significa, quindi, non limitarsi a mere strategie di integrazione degli alunni immigrati, né a misure compensatorie di carattere speciale. Si tratta, invece, di assumere la diversità come paradigma dell’identità stessa della scuola nel pluralismo, come occasione per aprire l’intero sistema a tutte le differenze (di provenienza, genere, livello sociale, storia scolastica).”
E ancora: “Le strategie interculturali evitano di separare gli individui in mondi culturali autonomi ed impermeabili, promuovendo invece il confronto, il dialogo ed anche la reciproca trasformazione, per rendere possibile la convivenza ed affrontare i conflitti che ne derivano.”
Quindi, per una scuola interculturale e per l’inserimento degli alunni stranieri in classe è necessario l’incontro non la separazione, la piena immersione, non la differenziazione senza contatto, una classe multietnica che valorizza l’ascolto e il dialogo, non che stigmatizza la differenza. Solo in contatto con l’altro e la sua differenza, soltanto nell’incontro può avvenire la contaminazione culturale e si può forgiare la convivenza, si possono promuovere conoscenza e scambio. Solo ad adempimento di queste condizioni, la qualità dell’integrazione non viene più misurata con la puntualità della parlata di lingua italiana, ma con la capacità di convivenza e rispetto tra persone appartenenti a culture diverse.
Abbiamo riportato l’esempio tedesco, perché di solito si cerca di indicare in esso un consolidato “modello tedesco” di integrazione. Mentre in realtà ci sono solo alcuni Länder che ancora lo praticano, visto che il metodo si è dimostrato errato e dalla pedagogia per gli stranieri si è progressivamente passato all’apprendimento interculturale o alla pedagogia interculturale.
Anche gli altri Paesi europei, nella loro grande maggioranza, come ricorda Favaro, seguono il modello integrato, un modello che “prevede l’inserimento da subito nella classe comune e contemporaneamente l’insegnamento mirato della seconda lingua per alcune ore settimanali (da 6 ore a 10 a seconda dell’età, della lingua d’origine, dei bisogni linguistici.), radunando in questi momenti “dedicati” gli alunni, anche al di fuori della classe, in piccoli gruppi.”
Qui emergono alcuni elementi chiave indispensabili per una efficiente integrazione degli alunni immigrati: si tratta di “insegnamento mirato” che pone davanti alla scuola esigenze della formazione di un corpo docente con competenze specifiche, la loro presenza nelle aule scolastiche come una risorsa stabile, prevede inoltre l’utilizzo da parte delle scuole di strumenti e supporti aggiuntivi come la valorizzazione delle competenze pregresse degli alunni stranieri, l’impiego di mediatori culturali, l’uso di librerie interculturali e altri strumenti didattici innovativi, moduli mirati e intensivi con sempre contemporanea immersione in classe multietnica, una programmazione e una valutazione differenziata, gli interventi didattici sul singolo, ma anche sulla classe intera, la comunicazione con le famiglie, il confronto e la diffusione delle buone pratiche… La scuola inoltre, deve dotarsi di un protocollo di accoglienza, che fornisca adeguate garanzie di un positivo inserimento sia per l’alunno che entra sia per la classe che lo accoglie.
Sono questi alcuni degli strumenti che portano all’adempimento dell’obbiettivo di pari opportunità per tutti preposti dalla scuola interculturale.
Molti passi in questa direzione sono stati fatti negli ultimi due decenni; le buone pratiche di integrazione degli alunni stranieri sono state costruite e diffuse a livello nazionale e sono diventate patrimonio delle scuole come degli Enti locali. La normativa fin qui prodotta ha promosso e sostenuto una scuola inclusiva, accogliente, interculturale.
D’altro canto, gli insegnanti, i pedagogisti, gli esperti dell’educazione interculturale sono convinti che ogni misura che seleziona e separa intere categorie di persone, è a favore della discriminazione. Tanto più diventa necessario operare per una scuola inclusiva, che accolga tutti i bambini e le bambine, che si ponga il problema di riconoscere e valorizzare tutte le culture, una scuola che curi la possibilità di co-evolvere attraverso l’interazione fra diversità. Ma, ricordiamo che la scuola viene chiamata ad improntare la propria attività su un piano interculturale anche in assenza di alunni stranieri, perché questa è la sfida pressante della contemporaneità.
Per gli insegnanti del MCE è accertato che “il metodo più naturale ed efficace per imparare a parlare e scrivere i propri pensieri in un’altra lingua, sia la via diretta (full immersion) in condizioni di comunicazione ascolto e dialogo, le sole capaci di dare senso all’apprendimento.
Chi educa sa che mettere insieme bambini di sesso diverso, di età diverse, di colore diverso, di diverse provenienze linguistiche, culturali, sociali e religiose è la strada consolidata (e più bella) per contribuire a creare un mondo nuovo, capace di scambio, rispetto, convivenza.”
Un gruppo di esperti del mondo accademico, culturale e sociale convocato dallo stesso Ministero della pubblica istruzione e costituitosi in Osservatorio nazionale per l’integrazione degli alunni stranieri e per l’educazione interculturale dopo due anni di lavoro ha elaborato un documento dal titolo significativo: “La via italiana all’integrazione e alla scuola interculturale”. Il documento è pubblicato sul sito del Ministero dal mese di ottobre 2007. Uno degli assiomi adottati nel testo si riferisce alla scuola italiana come scuola interculturale, ovvero una scuola che cura “la promozione del dialogo e del confronto tra le culture – per tutti gli alunni e a tutti i livelli: insegnamento, curricoli, didattica, discipline, relazioni, vita della classe. Scegliere l’ottica interculturale significa, quindi, non limitarsi a mere strategie di integrazione degli alunni immigrati, né a misure compensatorie di carattere speciale. Si tratta, invece, di assumere la diversità come paradigma dell’identità stessa della scuola nel pluralismo, come occasione per aprire l’intero sistema a tutte le differenze (di provenienza, genere, livello sociale, storia scolastica).”
E ancora: “Le strategie interculturali evitano di separare gli individui in mondi culturali autonomi ed impermeabili, promuovendo invece il confronto, il dialogo ed anche la reciproca trasformazione, per rendere possibile la convivenza ed affrontare i conflitti che ne derivano.”
Quindi, per una scuola interculturale e per l’inserimento degli alunni stranieri in classe è necessario l’incontro non la separazione, la piena immersione, non la differenziazione senza contatto, una classe multietnica che valorizza l’ascolto e il dialogo, non che stigmatizza la differenza. Solo in contatto con l’altro e la sua differenza, soltanto nell’incontro può avvenire la contaminazione culturale e si può forgiare la convivenza, si possono promuovere conoscenza e scambio. Solo ad adempimento di queste condizioni, la qualità dell’integrazione non viene più misurata con la puntualità della parlata di lingua italiana, ma con la capacità di convivenza e rispetto tra persone appartenenti a culture diverse.
Nuove classi differenziali?
La proposta delle classi separate che oggi si inserisce nelle scelte politiche educative del Paese viene letta da molti insegnanti – e non solo – in una luce più ampia, quella che porta alla voluta formazione di sacche di emarginazione e di conflittualità. Per il Movimento di cooperazione educativa – come verrà esplicitato nel suo documento – “si tratta di una misura xenofoba, che strizza l’occhio a concezioni discriminatorie, razziste e dunque anticostituzionali, una norma vergognosa che calpesta i diritti internazionali e la normativa italiana precedente.”
Nello stesso documento si ricorda una simile esperienza non troppo edificante vissuta in un periodo non troppo luminoso del passato italiano.
“L’idea riproposta in questi giorni non è nuova. Comparsa nel 1928 (Testo Unico Istruzione) prevedeva scuole speciali e classi differenziali per “ritardati e/o indisciplinati” e durò per moltissimi anni, fino alle leggi 517 e 820. Ufficialmente dichiarava un nobile intento: dare più possibilità e più cura a chi ha meno vantaggio in partenza. Ma occultava e nutriva una serie di paure:
– la paura, inconscia, verso chi è diverso, e ritenuto potenzialmente pericoloso;
– la paura, nascosta, che gli a-normali compromettano il rendimento dei normali e dei bravi;
– la paura, taciuta, da certi insegnanti che pensano di non svolgere interamente i programmi o, peggio, di perdere posti di lavoro.
Nell’anno scolastico 1966/67 i bambini nelle differenziali erano circa 40.000.
Nessuna ricerca, analisi, indagine ha mai dimostrato l’efficacia di quelle classi e cioè l’effettivo inserimento nelle classi ‘normali’ degli alunni provenienti dalle differenziali.
Qualsiasi maestra anziana lo può confermare: quei bambini restavano come erano e talvolta la scuola, anziché prendersene cura, se ne liberava bocciandoli.
Purtroppo per alcuni, le antiche paure, riciclate per gli stranieri, vanno bene anche oggi.”
Una posizione critica aspra e puntuale che nasce da una lunga prassi di educazione interculturale nelle scuole italiane e dalla consapevolezza che la responsabilità educativa è sempre stata grande, ma che oggi, a fronte dei gravi rischi che corre l’umanità, diventa ancora più grande.
Peccato che le mozioni riguardanti la scuola, l’istruzione e la formazione dei futuri cittadini e la loro capacità di convivenza in una società plurale, passano nelle istanze governative senza un confronto con gli esperti e con gli insegnanti che con pazienza, con determinazione, e professionalità operano quotidianamente nella scuola italiana promovendo la pedagogia interculturale e la coesione sociale.
La proposta delle classi separate che oggi si inserisce nelle scelte politiche educative del Paese viene letta da molti insegnanti – e non solo – in una luce più ampia, quella che porta alla voluta formazione di sacche di emarginazione e di conflittualità. Per il Movimento di cooperazione educativa – come verrà esplicitato nel suo documento – “si tratta di una misura xenofoba, che strizza l’occhio a concezioni discriminatorie, razziste e dunque anticostituzionali, una norma vergognosa che calpesta i diritti internazionali e la normativa italiana precedente.”
Nello stesso documento si ricorda una simile esperienza non troppo edificante vissuta in un periodo non troppo luminoso del passato italiano.
“L’idea riproposta in questi giorni non è nuova. Comparsa nel 1928 (Testo Unico Istruzione) prevedeva scuole speciali e classi differenziali per “ritardati e/o indisciplinati” e durò per moltissimi anni, fino alle leggi 517 e 820. Ufficialmente dichiarava un nobile intento: dare più possibilità e più cura a chi ha meno vantaggio in partenza. Ma occultava e nutriva una serie di paure:
– la paura, inconscia, verso chi è diverso, e ritenuto potenzialmente pericoloso;
– la paura, nascosta, che gli a-normali compromettano il rendimento dei normali e dei bravi;
– la paura, taciuta, da certi insegnanti che pensano di non svolgere interamente i programmi o, peggio, di perdere posti di lavoro.
Nell’anno scolastico 1966/67 i bambini nelle differenziali erano circa 40.000.
Nessuna ricerca, analisi, indagine ha mai dimostrato l’efficacia di quelle classi e cioè l’effettivo inserimento nelle classi ‘normali’ degli alunni provenienti dalle differenziali.
Qualsiasi maestra anziana lo può confermare: quei bambini restavano come erano e talvolta la scuola, anziché prendersene cura, se ne liberava bocciandoli.
Purtroppo per alcuni, le antiche paure, riciclate per gli stranieri, vanno bene anche oggi.”
Una posizione critica aspra e puntuale che nasce da una lunga prassi di educazione interculturale nelle scuole italiane e dalla consapevolezza che la responsabilità educativa è sempre stata grande, ma che oggi, a fronte dei gravi rischi che corre l’umanità, diventa ancora più grande.
Peccato che le mozioni riguardanti la scuola, l’istruzione e la formazione dei futuri cittadini e la loro capacità di convivenza in una società plurale, passano nelle istanze governative senza un confronto con gli esperti e con gli insegnanti che con pazienza, con determinazione, e professionalità operano quotidianamente nella scuola italiana promovendo la pedagogia interculturale e la coesione sociale.