di Giulia Checcucci
L’impegno per i «dimenticati»
Quando mi è stato chiesto di scrivere un articolo per Testimonianze, mi sono sentita onorata e il mio pensiero è andato a diversi anni fa, ai ricordi di padre Balducci e di tante persone che al tempo si muovevano in quel mondo di scritti, letture, discussioni, lotta, grande passione per il mondo, le persone, l’umanità. Forse quell’aria, respirata anche in famiglia, unita alle esperienze di vita passate, mi hanno portato ad occuparmi di un pezzetto di umanità, spesso buttato ai margini della strada, non considerato o, peggio, valutato così poco da apparire inesistente, se non fosse che dà noia, infastidisce, fa paura. In quella massa di persone, «brutte, sporche e cattive», come negli anni 80 si consideravano i tossicodipendenti, ho vissuto negli ultimi trent’anni, sia nel privato, tra comunità e cooperative, sia nel pubblico, all’interno di un SerT (Servizio per le tossicodipendenze).
Di storie ne ho sentite tante, di occhi persi tornati a brillare di vita ne ho visti, di persone che lottavano per riprendersi la vita ne ho accompagnate, come del resto, di tante ho perso le tracce o le ho viste interrompersi, per malattia, overdose, o per quel destino inesorabile che non perdona e che arriva implacabile anche quando c’è stata tanta fatica per volgerlo a proprio favore.
Se devo parlare, però, dell’esperienza più toccante, impegnativa e soddisfacente di questi anni, non posso che ricordare il periodo dal 2000 al 2012, in cui ho coordinato il Progetto Gulliver, finanziato dal Fondo Nazionale di Lotta alla Droga, diventato nel 2003, unendosi con il Progetto Punto Giovani, quello che fu denominato Progetto Giovani e Benessere, finanziato dai Piani di Zona del Circondario Empolese Valdelsa.
Questo progetto è stato realizzato a Empoli, al CAE (Centro di Accoglienza di Empoli), con la collaborazione del SerT. della ASL 11. Questa esperienza, così vissuta ed evoluta negli anni, ha rappresentato per il territorio, e, soprattutto, per me e per chi con me ha condiviso gioie e dolori di questo periodo, una sfida che ha portato ricchezza e nutrimento indimenticabili.
Di questo progetto voglio parlarvi, narrando il suo percorso, la sua evoluzione, attraverso una metodologia mutuata da altre esperienze, prima fra tutte quella vissuta al Centro di Solidarietà di Firenze, da Don Giacomo Stinghi, e intessuta di modalità espressive, tecniche, attività, tipiche della Psicoterapia della Gestalt, con la quale mi sono formata.
Un ringraziamento di cuore va alle persone che hanno permesso questa avventura indimenticabile, prime fra tutte Claudio Freschi, presidente del CAE, che, nel 1999, mi chiamò per coordinare il progetto e Maura Tedici, responsabile del SerT della ASL 11, medico altamente competente, collaboratrice preziosa e amica di grande spessore e umanità.
Parlando del Progetto Giovani e Benessere, mi preme, innanzitutto, fornire alcuni dati significativi, che dimostrano la sua importanza per tante famiglie e per tutto il territorio del Circondario Empolese Valdelsa: nei tredici anni del Progetto Gulliver sono entrati 105 ragazzi, 65 dei quali erano maschi e 40 femmine; l’età, simile nei due sessi, era compresa tra 16 e 27 anni; Il 78% dei giovani è giunto al Progetto inviato dal SerT di Empoli, il 18% attraverso il passaparola e il restante 4% attraverso altre vie; nella maggioranza dei casi (63,4%) i giovani sono giunti accompagnati da entrambi i genitori e nel 20% dei casi erano presenti anche i fratelli; nel 22,3% dei casi i giovani erano accompagnati dalla sola madre con e senza fratelli; rari i casi di giovani accompagnati dal solo padre o dai soli fratelli; infine, il 14,3% dei giovani non aveva alcun accompagnatore; hanno concluso positivamente il programma 34 giovani.
Conseguentemente l’«indice di successo», misurato come il rapporto tra gli ingressi e i casi conclusi positivamente, è risultato del 32,4%. E’ da notare l’entità di questo indice perché dalla letteratura risulta che nei programmi di tipo comunitario, considerati i migliori programmi di recupero, gli indici di successo non superano il 20 – 25%. La durata di un programma terminato con successo è mediamente di 822 giorni pari a 2 anni e 3 mesi.
Ricordando l’esperienza del coordinamento del progetto, non posso dimenticare quanto, sia i primi che gli ultimi anni, siano sempre stati connotati da difficoltà e ostacoli di ogni genere: entrare nella mentalità delle persone rispetto ai danni dell’uso di sostanze psicoattive o alla necessità di percorsi di crescita seguiti da esperti, non è stato affare semplice come, del resto, reperire fondi e acquisire credibilità agli occhi dei servizi competenti del territorio, azioni che hanno richiesto anni di lavoro, serio e basato su dati scientifici. Con il lavoro di tutti gli operatori e la collaborazione con i servizi, il Progetto Giovani e Benessere è decollato ed è stato portato avanti con impegno e costanza, ricevendo riconoscimenti, sia pubblici, sia da parte di coloro che ne hanno tratto beneficio.
Il Progetto Giovani e Benessere si rivolgeva a giovani che, per vari motivi, presentavano segni di disagio, in special modo legato alle dipendenze, ed era rappresentato dall’offerta di due diversi percorsi, il Progetto Gullivere il Progetto Punto Giovani, che avevano come obiettivo la crescita personale, attuata attraverso proposte di cambiamento di alcuni aspetti del proprio stile di vita.
Al suo inizio, nel 2000, il Progetto Gulliver fu strutturato per aiutare giovani a rischio d’abuso di sostanze, soprattutto di quelle cosiddette «ricreazionali». Nel 2004, poi, vista la somiglianza di alcuni consumatori di eroina con i giovani consumatori di cannabis, fu sperimentato l’inserimento di alcuni giovani inviati dal SerT. del Dipartimento Dipendenze ASL 11, che avessero le seguenti caratteristiche: età compresa tra i 18 e i 26 anni, consumatori di eroina «fumata» da meno di tre anni, ottima compliance nel caso che fossero all’interno di un trattamento farmacologico, rapido raggiungimento della condizione drug free, presenza di genitori a conoscenza della dipendenza da eroina, disponibili ad effettuare un percorso parallelo a quello dei figli.
Raccontare come si svolgesse il programma effettuato dagli utenti nel Progetto Gulliver, non è semplice perché, nonostante vi fosse una certa strutturazione, molto era dato dalla creatività degli operatori rispetto alle emergenze-urgenze che si creavano in ogni momento. Il programma era formato da colloqui settimanali, attività culturali, gruppi terapeutici, week-end e settimane residenziali dove poter effettuare attività culturali e terapeutiche, che, proprio per la maggiore disponibilità di ore, offrivano più possibilità di lavorare in maniera approfondita e con maggiori strumenti.
L’accesso al progetto era strettamente legato alla presenza dei familiari, in modo da creare, insieme agli operatori, al gruppo e al SerT., un contenimento che aiutasse il ragazzo a vivere sul territorio senza assumere sostanze. Questo ha significato creare una sorta di rete di protezione virtuale che contenesse le persone, sia attraverso regole, sia con la costituzione di relazioni molto strette e di qualità tra i membri del gruppo.
L’attività del progetto è sempre stata concordata con gli operatori del SerT. che, oltre ai controlli urinari, prendevano il ragazzo in carico, seguendolo nel proprio percorso. È importante sottolineare che il raggiungimento degli obiettivi, che altrimenti non sarebbe stato possibile, si è potuto ottenere grazie a questa collaborazione, con la mission condivisa della «guarigione» e una continua evoluzione delle modalità di conduzione, di accoglienza degli utenti, di attività, a seconda delle esigenze del territorio e delle varie tipologie di utenti.
Il lavoro con i ragazzi ha permesso loro di recuperare autostima, affrontare conflitti interni, ricostruire una rete relazionale e amicale sana, imparando a conoscere e a gestire le proprie emozioni, assumersi le proprie responsabilità, scegliendo, invece di seguire comportamenti automatici e stereotipati.
Il lavoro con le famiglie ha rappresentato uno dei cardini del progetto; attraverso colloqui e gruppi, ripercorrendo la propria storia familiare, è stato possibile valutare le azioni pregresse ed i comportamenti attuali, con l’obiettivo di una presa di coscienza delle proprie responsabilità nella formazione dello stile di vita dei figli. In particolare nei gruppi, i familiari sono stati invitati a rivedere il proprio rapporto di coppia, la relazione con altri eventuali figli e il proprio modo di rapportarsi all’altro da sé, con la finalità di diventare interlocutori attendibili. In questo senso si è trattato, quindi, di aumentare le loro competenze genitoriali, acquisendo più potere decisionale, migliore coerenza nelle proprie azioni e maggiori capacità comunicative e di ascolto.
Un lavoro molto importante, che ha richiesto parecchio tempo e impegno, è stato quello relativo all’assunzione dell’alcol, spesso utilizzato come sostitutivo di altre sostanze. Tale attività ha visto i ragazzi impegnati in periodi di astinenza dall’alcol, con gruppi mirati ad affrontare disagi e stati emotivi legati alla sobrietà, oltre alla ricerca di modi diversi di divertirsi e di socializzare.
Le attività del progetto sono state molteplici e il massimo della disponibilità e dell’offerta di un’apertura al mondo, è stato il viaggio in Spagna, ad agosto 2011, per percorrere gli ultimi 120 km del Cammino di Santiago di Compostela. Questo progetto ha comportato una preparazione, sia fisica che psicologica, che si è conclusa con l’esperienza di questo viaggio, narrata nei diari di bordo pubblicati sul sito di una rete locale, Radio Radicchio, e nelle telefonate serali, trasmesse dalla radio tutti i giorni. L’esperienza, che ha fatto emergere vari punti di forza e anche molti punti di criticità che sono stati affrontati di volta in volta, è stata altamente positiva ed ha portato linfa vitale a tutto il gruppo.
Di sicuro questi anni sono stati difficili ed impegnativi, con momenti molto ardui ed altri di grande coinvolgimento e commozione; posso affermare sicuramente che, nelle persone che sono state coinvolte nel progetto, dagli operatori del CAE e del SerT., ai ragazzi ed ai genitori, il Progetto Gulliver rimarrà impresso nel cuore.
Fragili e spavaldi
Non meno importante è stato il Progetto Punto Giovani, indirizzato a giovani che esprimevano un disagio ma non usavano sostanze, a parte due, per i quali si era rivelato più idoneo tale percorso. La maggior parte dei ragazzi aveva pochissima stima di sé, non si piaceva, alcuni avevano problemi alimentari ed una dispercezione corporea che li portava ad avere una pessima relazione con il cibo, altri, ancora, mostravano segni di ansia che, spesso, degenerava in attacchi di panico. Con loro, il lavoro era simile a quello utilizzato con i ragazzi del Progetto Gulliver, soprattutto rispetto alla possibilità di ritrovare il gusto delle piccole cose e momenti di serenità e piacere.
I genitori di questi ragazzi erano generalmente piuttosto giovani, più o meno della mia generazione o di quella appena precedente, i 40/50enni che hanno lottato per affrancarsi dalla famiglia ed essere indipendenti. Sono quelli del 77, strascico del 68, figli della contestazione e del femminismo, contro tutto e tutti, soprattutto l’autorità. Ed ecco che questi rivoluzionari, contestatori, quelli che hanno, freudianamente parlando, «ucciso il padre», figli e figlie di «padri padroni», tremavano di fronte a questi figli, impauriti dalla possibilità di un rifiuto, resi ansiosi dalle minacce del mondo che li circondava. E i loro figli, eccoli lì, «fragili e spavaldi», come direbbe Gustavo Pietropolli Charmet, pieni di presunzione, convinti di dover avere qualsiasi cosa, «tutto dovuto», immediatamente, senza colpo ferire! Meno male che al Progetto Punto Giovani erano presi in carico anche genitori di adolescenti, giovani madri con figli, coppie e famiglie, in un’ottica di prevenzione del disagio e dell’uso di sostanze. I dati riguardanti il Progetto Punto Giovani sono i seguenti: nei dieci anni del Progetto Punto Giovani sono entrati nel programma 154 giovani di età compresa tra 18 e 34 anni, in prevalenza ragazze (70%); una metà delle persone entravano nel programma perché indirizzate dalla sottoscritta, mentre l’altra metà entrava attraverso il passaparola; per quanto riguarda gli esiti, 26 persone hanno abbandonato il programma, prevalentemente nella fase dei colloqui; 128 persone, invece, lo hanno concluso con piena soddisfazione dopo una frequenza media di 535 giorni, pari a circa un anno e mezzo. L’«indice di soddisfazione» è particolarmente elevato: 83,1%.
Si noteranno le differenze tra i risultati del Progetto Punto Giovani e quelli del Progetto Gulliver, ma queste differenze sono facilmente comprensibili se si pensa che i giovani che frequentavano quest’ultimo erano forzati ad entrarvi per uscire da una situazione di grave compromissione psicofisica, mentre chi frequentava il Punto Giovani voleva soltanto essere aiutato a risolvere un problema personale.
Aiutare a uscire dalla gabbia
Un accenno, se pur breve, mi preme farlo su come la Psicoterapia della Gestalt, nella quale sono formata, possa essere utilizzata per aiutare dei ragazzi a trovare qualcosa di buono e di allettante per cui valga la pena lasciare una sostanza così magica come l’eroina, la cocaina, o altre di questo genere. Questa è stata la nostra scommessa, ogni istante, ogni giorno di questi tredici anni, utilizzando ogni strumento conosciuto e altri inventati creativamente, in modo da offrire e far sperimentare modalità diverse di stare al mondo, che fossero poi utilizzate per abitare «comodamente» il proprio mondo. In questo senso, ognuno di noi, pur basandosi su determinate teorie, ha lavorato con grande creatività, estrosità, talvolta perfino correndo il rischio di non essere compresi perché in qualche modo uscivamo dai canoni consueti. Un esempio: il setting cambiava a seconda delle situazioni, magari seduti per terra, oppure fuori dalla stanza, andando a fare una passeggiata o a prendere un caffè, soprattutto quando un ragazzo era talmente «difficile» che occorreva muoversi continuamente tra le figure del genitore, dell’amico, dell’insegnante o di altri adulti di riferimento.
Lavorare con i ragazzi che usano sostanze ricreazionali non è facile; nel mio caso, abituata da venti anni a lavorare con gli eroinomani, mi sono trovata davanti adolescenti, a volte non ancora maggiorenni, portati «per un orecchio» dai genitori, quindi senza voglia e motivazione a cambiare, anzi, con tanta rabbia e resistenza.
Agganciarli è stata la sfida maggiore; generalmente il mio sguardo era attento, profondo, ma mai fisso, in modo da non imbarazzare, il classico sguardo «fluttuante» che osserva, ma lascia anche lo spazio per non sentirsi scrutati come un batterio al microscopio. Cercavo di tenere sempre presente chi ero io e chi era l’altro, in modo da non far dimenticare il ruolo di ognuno e la distanza terapeutica che esisteva; la distanza poteva accorciarsi a seconda delle situazioni, ma esisteva sempre e andava continuamente ripristinata appena passato il momento di maggior vicinanza. Per certi aspetti era un po’ come dovrebbe comportarsi un genitore «sufficientemente buono», con quel giusto equilibrio di «sì» e di «no», di vicinanza e di lontananza, di affetto e di norme. Ed è proprio in questo difficile equilibrio che si strutturava, tra l’operatore ed il ragazzo, il primo legame utile a tutto il lavoro: la «dipendenza». In effetti, può sembrare assurdo combattere la dipendenza con la dipendenza, ma in realtà era proprio così. All’inizio la dipendenza era solo da un operatore, in seguito si diffondeva anche agli altri operatori ed agli utenti per poi, piano piano, disperdersi sempre di più fino quasi a scomparire; era quello, allora, il momento in cui il giovane era pronto per andarsene.
Da bruchi a farfalle
E per dare un’idea del lavoro svolto nel progetto, vorrei raccontare di un tipo di esperienza fatta ogni anno: il periodo estivo residenziale. Questo periodo estivo di dieci giorni, denso di vita e di emozioni, ha rappresentato, in ogni anno, uno dei momenti più importanti del lavoro, offrendo la possibilità di un cambiamento di prospettiva sul proprio modo di stare al mondo. Nelle case di campagna dove abitavamo tutti insieme, potevamo osservare i ragazzi anche nella vita quotidiana, proprio come in una comunità. Dalla sveglia alla buonanotte, ogni momento era vissuto intensamente, sia che si lavorasse in gruppo, sia che si cucinasse o si guardassero le stelle cadenti.
Ogni giorno avevamo in programma un’attività che fosse creativa ed aprisse mente e cuore: vari laboratori, di musica, arte, cucina. E poi, durante la mattinata o per giornate intere, avevamo il momento del lavoro terapeutico che iniziava con una meditazione che serviva a sentire cosa stava accadendo all’interno e all’esterno di noi, facilitava la «presenza» e lo stare nel «qui e ora», permettendo di poter lavorare su ciò che affiorava alla consapevolezza. Nei lavori erano utilizzate varie tecniche della Psicoterapia della Gestalt, come la «sedia vuota», dialogo con le persone assenti o con parti di sé, o la messa in scena di un fatto del passato o del presente, di un evento che era rimasto aperto e che ancora provocava sofferenza, oppure l’esasperazione di un comportamento che permetteva alla persona di «sentire» che cosa le succedeva quando si metteva in una determinata situazione. E in ogni gruppo era una meraviglia osservare i cambiamenti di umore, dell’espressione del viso, delle mani, le lacrime, la rabbia espressa con un pugno a un cuscino o con un urlo bloccato lì chissà da quanto! Mi emozionava vedere la fatica di provare ad uscire fuori da una gabbia, a mettere insieme parti di sé perennemente in conflitto, a sorridere e ridere di cuore, ritrovando il sapore dell’ironia e della spensieratezza di un ragazzo di vent’anni.
Tutto era vissuto a cavallo di un’onda di sentimenti, prese di coscienza, acquisizione di consapevolezza, in un’alternanza di momenti di gioia, baratri di disperazione, «lacrime, sudore e sangue», per finire con canti spensierati con la chitarra, oppure silenzio davanti ad un tramonto, visto, forse, per la prima volta, per tutto ciò che può rappresentare.
Questi giorni hanno visto aprirsi cuori, snebbiarsi menti, per diventare esseri umani con la propria dignità, liberi di andare e venire nella loro intimità, intrecciandola con quella di altri simili, attraverso cose semplici come una colazione insieme, un buongiorno dato con il cuore, un occhio attento all’espressione dell’altro e ai suoi bisogni. Sono stati giorni di duro lavoro, chiusi nell’abbraccio protettivo del gruppo, vedendosi non degni, doloranti, arrabbiati, sconfitti, delusi, impotenti di fronte a se stessi, al limite della rassegnazione.
Guardando i ragazzi, la loro difficoltà nell’uscire dal proprio bozzolo che, anche se distruttivo, è comodo, spontaneo e si muove in automatico, mi venivano in mente le parole di Krishnamurti: «Ciò che per il bruco è la fine del mondo, per il resto del mondo è una bella farfalla». E sì, erano lì, quei piccoli bruchi che si contorcevano e soffrivano pensando di morire di rabbia e dolore, mentre noi tutti vedevamo le loro ali che piano piano si staccavano, uscivano dal bozzolo, con tanta fatica, ma con quale bellezza!!! Vedevamo quello che loro ancora non vedevano, il loro essere delle meravigliose farfalle che, solo uscendo completamente dal bozzolo, avrebbero potuto volare libere e vedere tante parti del mondo, della realtà, da altezze, angolazioni e prospettive diverse!
E tutto questo, come dice il mio maestro, Paolo Quattrini, può accadere solo in un clima di amore e benevolenza: «Si amano le persone che, miracolosamente, per misteriose ragioni, ci vogliono bene e da questi si impara a trascendere il dolore e la paura che la vita comporta».