di Sara Mugnaini
Avere vent’anni, per generazioni fra loro diverse, non è mai stato semplice. Nemmeno per i giovani di oggi, che viaggiano sempre ad occhi bassi, non per vergogna, ma perché fissi sullo smartphone per collegarsi perennemente con il resto del mondo (senza escludere la bella e «sorprendente» possibilità di dedicarsi alla lettura di un libro), le orecchie sempre occupate dalla musica che ormai ha invaso i luoghi più impensati, il tempo che scorre al ritmo dei videoclip. Giovani incerti sul passato e insicuri del futuro, che pure vivono con pienezza la bellezza di un’età comunque aperta alle infinite possibilità della vita.
Un vestitino di cotone leggero
Quando ho compiuto vent’anni avevo un vestitino bianco di cotone leggero, era una sera d’estate calda come in pochi giorni dell’anno, un drink in mano e i miei amici che aspettavano di diventare ventenni pure loro. Quando mio padre ha compiuto vent’anni aveva iniziato a lavorare da pochi mesi, un anno prima aveva detto a mia madre che mai e poi mai si sarebbe messo una cravatta e un vestito da pinguino, e quell’anno in cui cambiò decina si era ritrovato a decidere per il blu o per il grigio gessato, ed era finito in un compromesso definito successivamente storico: un papillon magenta. La sera in cui mio nonno compì vent’anni, lavorava come cameriere. Avrebbe lavorato ogni giorno della settimana per anni e anni, perdendosi i vari compleanni di mio padre, i vari anniversari di matrimonio con sua moglie, il battesimo dei nipoti e la cresima, ancora una volta, di mio padre. Diciamocelo: avere venti anni non è mai stato un granché, in nessuna generazione. Quella sera del vestitino bianco io pensavo più al voto del mio esame all’università che alle candeline sulla torta. Mio padre si sentiva soffocare dal cordoncino magenta del papillon. E mio nonno sudava nella camicia stretta e bestemmiava per le scarpe di pelle nera. Ora che mi trovo esattamente a metà del mio percorso dai venti ai trenta, ho ancora molti dubbi sul futuro, e perché no, persino sul passato. Siamo la generazione bruciata dalla crisi economica, siamo quelli che giocano a fare i trentenni, e poi a cinquant’anni si comporteranno da ventenni, in un gioco di età invertite che non ci ha mai avvantaggiato, anzi, il più delle volte ci ha reso parecchio ridicoli. Eppure, sentirsi nella porzione possibilista della nostra vita ci dà un sacco di soddisfazioni. In ogni epoca, i ventenni sono stati quelli del «si può fare», quelli delle speranze e dei sogni. Noi, a maggior ragione, siamo i figli delle esperienze all’estero, delle università pagate da quelli dei papillon magenta e delle scarpe di pelle nera, quelli che dimostrano di esser cresciuti non più nelle strade delle città, ma del mondo. Quelli che aspettano anni per diventare indipendenti, perché prima devono studiare e solo poi si possono sentire rinfacciare il fatto «di non avere esperienza» nel campo del lavoro. In venti-venticinque anni ne abbiamo viste delle belle. E proprio per questo possediamo caratteristiche alquanto singolari. Abbiamo…
Non per paura o per vergogna, no, e di cosa dovremmo vergognarci, in fondo? Teniamo gli occhi bassi per colpa della tecnologia. Fate un test. Camminate un giorno nel vagone di un treno. La maggior parte dei ragazzi che vedrete, se non la totalità dei presenti, compresi casalinghe, pensionati, liceali e impiegati, sarà concentrata sul proprio smartphone. A volte ho avuto il dubbio che con la dicitura smart («intelligente») ci abbiano seriamente fregato. Cosa è intelligente? Il telefono? O l’utilizzo spasmodico che ne facciamo in ogni singolo minuto della giornata? Dai navigatori satellitari che prima o poi, son convinta, arriveranno a suonare il campanello per noi, dieci secondi prima del nostro effettivo arrivo a destinazione; alla ricetta dell’ultimo minuto che ti dà un sacco di informazioni (che diciamocelo pure, in realtà non ci servono) come calorie, prezzo dei singoli ingredienti, difficoltà della preparazione, e infine tutti i commenti del popolo del web («yummi, gnammi, slurp») che quella ricetta, ahimè, l’ha già provata. Evidentemente non siamo smart noi, e non è tanto smart manco il telefono. Di cui appunto, siamo completamente succubi e dipendenti. Altro test comparativo tra noi e la generazione dei nostri genitori. Mio padre ha calcolato che per fissare luogo e data di un incontro, negli anni Ottanta servisse ben una, ripeto, una telefonata. Sembra fantascienza. Oggi? Interminabili chiamate e richiamate con le amiche per fissare un’uscita serale, … ma come, oggi non puoi, domani allora, aspetta chiamo le altre e sento se per loro va bene, … riuscite a fissare, ah ma sei in ritardo, dai ti aspetto nel solito punto, dove ci incontriamo sempre, e dopo dieci minuti ancora non si è fatto vivo nessuno. Richiami e richiami, tanto con gli smartphone abbiamo tutte i minuti gratis, e probabilmente riuscirete a iniziare la serata a mezzanotte inoltrata. Un’esperienza da provare. Due settimane fa ho dimenticato il cellulare a casa. Panico e raccapriccio. Niente musica, niente messaggini, niente mail da inviare a chicchessia. Maledette dipendenze del terzo millennio. Sul treno sono stata costretta a tenere gli occhi alti, e una ragazza di fronte a me stava leggendo il mio libro preferito. Una cosa che non avrei mai notato tenendo gli occhi bassi. È stato il viaggio da pendolare più piacevole degli ultimi anni, chiacchierando del libro e conoscendo qualcuno che non avrei mai neanche considerato, se fossi stata concentrata sul gigantesco mondo di possibilità racchiuso nel mio smartphone. Da allora il cellulare non me lo sono più dimenticato. Ma sul treno lo tengo chiuso nella borsa. E nel frattempo mi leggo un bel libro. Che comunque vada mi costringe a tenere gli occhi bassi. Ma… Ma.
Il primo settembre del 1997 avevo la televisione accesa quando gli U2 celebrarono la nascita di MTV Italia. Nei giorni seguenti ricordo sequele interminabili di discussioni con mia madre che mi intimava di correre a fare i compiti, mentre io continuavo a starmene distesa in salotto sul tappeto, a guardare video musicali che giravano senza interruzione. Per me fu una rivelazione. Il pensiero che ad ogni canzone potesse corrispondere una mini storia d’amore/passione/frustrazione/seduzione/due di picche… mi affascinava. Tremendamente. Non siamo la generazione dei film. Noi siamo quelli dei video. Corti, incisivi, di rapido consumo e di rapido innamoramento. Il connubio musica-immagine è talmente tipico della nostra generazione, che scommetto che chiunque di noi potrà ricordare almeno un caso in cui si sia invaghito prima del video, e poi della canzone. Non crucciamoci. Non è (mediamente) colpa nostra, neanche se adesso siamo abituati al sottofondo musicale ovunque ci troviamo. Se prima la musica riguardava il salotto di casa nostra, due o tre locali, e l’abitacolo della nostra macchina, ora la musica, scusate il gioco di parole, è davvero cambiata. La sentiamo ovunque. Nei supermercati, nei negozi, in coda alle poste. Ne siamo così circondati che esiteremmo a entrare in un locale senza almeno un accordo di musica ambient o chill out. Eppure, non sono incline a considerare la cosa come un danno. Internet ci ha fornito un elenco interminabile di tracce musicali che fino a pochi anni fa erano acquistabili per una somma che non potevamo quasi mai permetterci di spendere. Insieme alla nascita di MTV ricordo il primo giorno in cui potei mettere le mani su una linea ADSL, e scaricarmi le discografie complete di Aretha Franklin, Queen e De Andrè. Cari U2, non ce l’abbiate con me, il concerto per MTV Italia fu meraviglioso, ma vi ho ugualmente scaricato a costo zero.
Quando avevo circa cinque o sei anni, il sabato sera eravamo padroni del telecomando del nonno. I grandi erano impegnati nei discorsi da grandi, e noi bambini ci rincoglionivamo con il teatro del Bagaglino. Luci, boa di piume, gag sconce, satira spicciola e donne mezze nude. Non sapevamo niente di Mediaset, di Craxi e di Milano2, la politica si riduceva a quegli attori che sul palcoscenico impersonavano i protagonisti degli ultimi anni della politica. Oggi accendo la tivù, e cosa vedo? Vedo il teatro del Bagaglino a Montecitorio e a Palazzo Chigi. Quintali di botox e cerone per coprire le rughe, un turbinio di deputate in abitini strizzati in eco-pelle e brillanti che farebbero impallidire la Valeria Marini nei suoi anni migliori. Vedo gente che sventola fette di mortadella, altri onorevoli che si azzuffano come nei film di Bud Spencer e Terence Hill, manca solo il famoso pugno in testa. A destra infamano, a sinistra urlano, al centro inveiscono. Mi viene da compatire il povero ragazzo nel mezzo del caos, sì, quello che deve riscrivere, parola per parola, tutto quello che sente in aula. Vorrei piazzargli un cartello di fianco, con su scritto «non sparate al pianista», come in quei beceri saloon del lontano West, dove, come nel teatro del Bagaglino, si incontravano prostitute, difensori della legge, ladri e truffatori di ogni sorta. Almeno con il telecomando del nonno potevo schiacciare off.
Quando arrivi a Cordoba, gli abitanti del posto ti consigliano sempre di visitare due cose: la grande moschea e la cattedrale dell’immacolata Concezione. Ci rimani un po’ di stucco quando ti rendi conto che gli indirizzi coincidono. Ma come? Ma non mi avevano detto moschea? Eppure questa è una chiesa cattolica! Superi lo stupore iniziale e ti decidi ad entrare. Uno scenario che ricorderai per tutta la vita: corridoi e corridoi di piccole colonne rosse e bianche, un altare cristiano, e un mihrab musulmano. Quel giorno mi venne subito da pensare alle stragi, alle guerre religiose dei giorni nostri, al fatto che più di 1300 anni fa questo luogo di culto fosse stato semplicemente condiviso, e utilizzato in pace, da musulmani e cristiani. Guardavo in alto, il soffitto intarsiato di colonne cattoliche, e di fronte a me l’altare rivolto alla Mecca. Non riuscivo a pensare a niente di più bello. Giravo tra le navate e mi convincevo di quali meraviglie potessero creare due culture così diverse tra loro, se pacificamente fuse insieme. Un ragazzo scuro di pelle si sfilò le scarpe, distese velocemente un tappetino, e si inginocchiò, fronte a terra, per pregare. Qualcuno avvisò i guardiani. Ricordo che ci lamentammo, io ed un ragazzo della mia età, io in inglese e lui in spagnolo, quando i sorveglianti arrivarono di corsa e gli intimarono di alzarsi e andarsene. Non servì a niente. Eravamo in una chiesa cattolica, adesso, nel 2011, e lui non poteva pregare il suo Dio. Il ragazzo musulmano fu fatto allontanare. Ed io uscii in fretta. Non mi andava più di pregare il mio, di Dio.
Ho compiuto ventitrè anni organizzando una festa anni Ottanta. Arrivarono gli invitati con papillion multicolori, camicie dai colori improbabili, amiche con capelli cotonati come nel telefilm Beverly Hills, con orecchini grandi come lampadari e trucchi pesanti da dive di Hollywood. Mettemmo la musica: Michael Jackson, Wham, Boy George, Genesis e David Bowie. Condimmo tutto con del buon vino e una cena rigorosamente anni Ottanta, che comprendeva, fra le tante cose, le famigerate penne alla vodka che in pochi avrebbero digerito. Qualcuno cominciò a fare calcoli. I nostri genitori avevano venti-venticinque anni negli anni Ottanta, e adesso che c’eravamo noi, che cosa ne pensavamo? Qualcuno si mise a ridere, commentando che non era cambiato assolutamente nulla. Fecero una lista di cattivi motivi per non guardare al passato, e tanto meno al futuro. La situazione, secondo il partito dei pessimisti, non era cambiata di una virgola. I più ottimisti, lo ricordo ancora, seduti per pura coincidenza dalla parte del tavolo dove sostavano più bottiglie vuote, elencarono molte novità (tecnologia, modi di viaggiare, pensare, vivere, i costumi più rilassati, la religione meno opprimente), per cui, secondo la loro modesta opinione, avevamo di che ben sperare. Poi l’attenzione si spostò sulla camicia di uno dei miei invitati. Indossava una cosa informe con una stampa che raffigurava tanti germani reali. All’ennesima presa in giro, replicò: «Oh, ma per piacere! Che cosa avrebbero mai creato di buono gli anni Ottanta?». A sentire quella domanda, metà del tavolo rispose convinta: «Noi!». Eravamo insicuri di tutto. Delle nostre origini, del passato che ci aveva formati e messo in testa le convinzioni che ci saremmo portati dentro per tutta la vita. Ma rispondemmo comunque in coro. Noi.