muro berlino

Nel mondo della complessita’
di Rodolfo Ragionieri

Dopo l’epico, e inatteso, evento del crollo del Muro, il sentire collettivo ha avuto vistose oscillazioni fra pessimismo e ottimismo. Sentimenti entrambi, parzialmente, fondati. Dopo l’Ottantanove, c’è stato chi ha parlato di un “mondo fuori controllo”. Con un’esplosione imprevista di guerre e violenze. Ma, infine, in un quadro globale di grande complessità, possono essere registrati anche un complessivo avanzamento dell’area delle democrazie ed un progresso dello “spirito cosmopolitico”.

Per sentimenti contrapposti
A venti anni dalla caduta del Muro di Berlino possiamo dire di essere stati posseduti in maniera alternante da sentimenti di eccessivo ottimismo e pessimismo. Il pessimismo è stato causato proprio dal nostro eccessivo ottimismo, e cioè dalla speranza che la caduta di regimi impopolari ed inefficienti e la fine della divisione dell’Europa avrebbero, senza contraccolpi, portato il mondo intero verso un radioso destino di progresso, liberato anche da quello che per alcuni di noi era stato un modello considerato all’inizio almeno come punto di riferimento storico, poi come colossale fallimento, infine come un totalitarismo e un grande autoinganno: il comunismo sovietico.
Se guardiamo più in generale al sistema internazionale, la tendenza si è delineata subito, ma è stata in qualche modo mascherata o velata dalla nostra pretesa di raffigurare la politica internazionale sotto formule o metafore semplici se non semplicistiche: unipolarità, multipolarità, multilateralismo. Mi pare di poter dire che, fino da quell’evento che ben ha segnato il dopo 1989, ossia la Guerra del Golfo del 1991 (la seconda secondo la mia prospettiva: la prima era stata la guerra Iran-Iraq, 1980-1988, la terza quella del 2003) fosse chiaro come stessero le cose: un’evidente egemonia americana, che però si innestava su di un sistema internazionale talmente complesso da rendere impossibile l’esser governato da un unico stato, per quanto potente esso fosse. Infatti, intelligentemente, sia Gorge Bush sr., sia Bill Clinton hanno sempre cercato di far passare la loro leadership mondiale attraverso le istituzioni internazionali, o comunque, come nel caso della guerra per il Kosovo (1999), di legittimarla per mezzo di argomentazioni di diritto che volevano configurarsi quasi all’interno di una tendenza cosmopolitica. Tale politica connotata in senso multilaterale e istituzionale è stata ripresa in modo più organico, deciso e consapevole dal Presidente Barack Obama e dal segretario di stato Hilary R. Clinton.

Un sistema complesso
Credo però che sia necessario tornare sulla dimensione della complessità del sistema. Negli anni della “Guerra Fredda”, quando la nostra attenzione era più spesso polarizzata verso il contrasto USA-URSS, si è compiuta in un periodo relativamente breve una globalizzazione, per usare in modo volutamente anacronistico una parola venuta di moda successivamente, del sistema degli stati europei. La politica internazionale si giocava infatti fino alla Seconda Guerra Mondiale tra le poche potenze europee, cui andavano aggiunte, dalla fine del secolo XIX, gli Stati Uniti e il Giappone. La Cina era in posizione subordinata, quasi una vecchia balena oggetto della caccia spietata di un branco di orche, l’America latina un mondo semi-isolato, soggetto all’egemonia degli Stati Uniti (che succedeva a quella inglese), Asia e Africa in gran parte soggette al dominio coloniale. Tra il 1945 e il 1960 la decolonizzazione dette luogo per la prima volta a un sistema globale di stati territoriali, mentre l’America Latina entrava nel gioco del confronto bipolare.
Oltre a questa enorme estensione spaziale, e alla conseguente articolazione della politica internazionale in rapporti “regionali” (Medio Oriente e Nord Africa, Asia orientale, Asia Meridionale, Africa sub-sahariana e così via), si aggiungevano sul tavolo politico-diplomatico internazionale, soprattutto a partire dagli anni Sessanta e Settanta, un gran numero di questioni: lo sviluppo e il sottosviluppo, la crisi energetica, la gestione delle risorse naturali. Tale aumento di attori statuali e problemi portava inoltre sia all’aumento delle sedi negoziali, sia all’accresciuta importanza di istituzioni internazionali, formali e informali, e all’affacciarsi di attori non statuali, sia di tipo economico come le aziende multi-nazionali, sia di tipo sociale e non governativo come le grandi organizzazione non governative.
Si aveva così un aumento di complessità di tipo multidimensionale (numero e tipo di attori, tipo e quantità di problemi, sedi diplomatiche e istituzionali), che era solo apparentemente mascherato, almeno fino al 1989, dalla pesante cappa costruita dalla possibilità di una guerra nucleare tra le due superpotenze.

Un mondo fuori controllo?

Con il 1989 questa complessità multidimensionale si libera, nel bene e nel male. Possiamo dire che nei primi mesi ha prevalso l’ottimismo: le forze della società civile che erano restate a lungo compresse e marginalizzate in Europa centro-orientale, esemplificate da personalità come Václav Havel o Lech Wałęsa, sembravano poter costituire l’elemento trainante anche di un modo diverso e meno ossificato del fare politica altrove. Successivamente ha prevalso il pessimismo: conflitti e massacri della prima metà degli anni Novanta, dalla Bosnia al Ruanda, che hanno segnato il massimo di una tendenza alla crescita della violenza iniziata negli anni Settanta, hanno fatto pensare a un “mondo uscito di controllo”, secondo l’espressione di Zbignew Brzezinski. Un’increspatura sulle onde lunghe della storia, il successo dei neo-conservatori sotto la prima presidenza Bush jr. seguito all’attacco terroristico dell’11 settembre, è stata anche questa considerata, secondo me erroneamente, una tendenza di lungo periodo.
Ora possiamo forse trarre qualche conclusione. Prima tratterò gli aspetti negativi: le guerre; poi quelli che mi sembrano positivi: estensione della democrazie e possibilità di governance globale, ivi incluso un accenno all’Europa. I primi anni dopo il crollo del Muro hanno visto un incremento nel numero delle guerre e dei morti in guerra, soprattutto a causa dei conflitti di frammentazione della Jugoslavia e dell’Unione Sovietica, e del genocidio in Ruanda e delle altre guerre in Africa. Il decennio che inizia con il crollo del Muro termina con la chiusura della crisi serbo-jugoslava segnata dalla guerra per il Kosovo. Anche se la vicenda bellica balcanica si chiude, almeno temporaneamente, con il 1999, tutti gli indicatori di conflitti a livello globale ed europeo indicano una diminuzione. inequivocabile e sostanzialmente continua a partire dalla metà degli anni Novanta. Dal punto di vista quantitativo i morti delle Twin Towers equivalgono a una strage quotidiana nella guerra del Congo e nella Guerra Mondiale Africana, stragi “inesistenti” perché non pubblicizzate, ma che nel macabro ed egualitario conteggio delle vittime hanno lo stesso peso.
Il fatto inequivocabile e che balza agli occhi è che la vecchia guerra di rivalità tra grandi e medie potenze per l’equilibrio e l’egemonia, caratteristica del sistema europeo degli stati dal XVI al XX secolo, sembra almeno provvisoriamente scomparsa. Non è questo il luogo per interrogarsi su tale mutazione, ma dobbiamo tener conto del fatto che nella fenomenologia della guerra si è attuato un paradossale rovesciamento: le guerre sono attualmente guerre civili o guerre civili con intervento da parte di potenze esterne o istituzioni internazionali; l’ambito tradizionale della guerra, quello interstatuale, è divenuto tendenzialmente pacifico, mentre quell’area che doveva essere pacificata dallo Stato, oppure resa impermeabile all’intervento esterno, è attualmente teatro delle guerre più aspre, come la guerra in Zaire/Repubblica Democratica del Congo, e in alcuni casi oggetto di intervento esterno, come in Afghanistan: laddove fallisce lo stato, si situa una guerra che distrugge stato e società e può sia attirare l’intervento delle potenze, sia scagliare schegge di violenza anche nel cuore della grande potenza (le Twin Towers), qualora la violenza possa essere polarizzata e indirizzata da un’ideologia apocalittica e postmoderna quale il “jihadismo globale” di Bin Laden.
Queste ampie isole di violenza sembrano essere non governabili con le istituzioni, i mezzi, i regimi politici e le tecniche negoziali in uso. O forse lo sarebbero se politici e diplomatici fossero tutti disposti a rischiare qualcosa della loro credibilità su tali problemi, credibilità che invece sono pronti a giocare (in paesi diversi) sulla libertà delle armi da fuoco, su dettagli di procedura penale, su dettagli di carriera di questo o di quel settore sindacale o (im)produttivo..

Regimi autoritari e democrazie extraeuropee

Per venire al punto successivo, la diffusione della democrazia non ha potuto certo procedere in modo uniforme e isotropo fino alla sua completa affermazione: la Cina, il mondo arabo e quello ex-sovietico rimangono ancora refrattari a processi di liberalizzazione e democratizzazione duraturi e in profondità: se guardiamo la carta della democrazia nel mondo sul sito di  Freedom House (www.freedomhouse.org), notiamo una grande area di regimi autoritari o semi-autoritari tra il centro dell’Eurasia e l’Africa del Nord. Nonostante ciò, anche sul piano della diffusione della democrazia mi pare che in molte parti del mondo le cose vadano meglio di quanto potessimo pensare: in Europa e in America Latina la democrazia (non sempre del tutto liberale) si è affermata e si sta consolidando. Nella maggior parte dei paesi dell’Europa centro-orientale, ivi compresi i paesi balcanici, sembra che la democrazia si stia consolidando o stia comunque avanzando.
Il vero e grande fatto nuovo sta nell’Asia meridionale e orientale. Stante la permanente instabilità del Pakistan, che può essere associata sia al processo di costruzione di uno stato interamente nuovo, sia al suo essere ormai da trenta anni attore di prima linea nel conflitto afgano, se prendiamo in considerazione Indonesia, India, Giappone e Corea del Sud, la maggior parte dei cittadini di paesi democratici sta fuori dell’Occidente. Questa espansione globale della democrazia, o di una sua certa forma, mi sembra un elemento di difficile sopravvalutazione. Comunque, è ormai impossibile identificare la democrazia con l’Occidente. Anche se le terribili differenze sociali presenti in paesi come l’India, la scarsa effettiva alternanza del sistema politico giapponese, le tensioni interne tuttora esistenti in Indonesia ci fanno pensare a lunghi processi di stabilizzazione, ormai democrazia e occidente non coincidono più. Questa situazione configura una molteplicità di vie alla creazione di istituzioni statuali di tipo democratico.
Questo fatto innegabile si viene però a inserire in una situazione in cui il processo globale decisionale su  molte questioni, quali le trattative economiche ed ambientali, sta perdendo di trasparenza. Per dirla in modo sintetico, la moderna democrazia rappresentativa e liberale sembra perdere, almeno in parte, di significato, nel momento in cui costituisce l’unico regime politico universalmente legittimato. Che significato può avere il carattere democratico di Kiribati o di Vanuatu, rispetto alle decisioni, vitali per questi piccoli stati oceanici, sul clima?
Mentre stato territoriale e democrazia avevano in modo unico sintetizzato efficienza e legittimità, le due cose sembrano, allo stato attuale del processo politico, di nuovo divergere. Ma, mentre nel Medio Evo europeo godevano di piena legittimità istituzioni universali (in conflitto tra di loro) come Impero e Papato, di fronte alla maggior efficienza dei nascenti stati territoriali o delle città-stato, attualmente abbiamo una maggior legittimità delle unità di dimensione inferiore, gli stati territoriali, mentre alcune decisioni rilevanti sono prese in sedi e con processi di non sempre facile identificazione. Si può anche pensare (ma questa è un’ipotesi di lavoro) a una trasformazione della natura del potere e della sua legittimità, da un potere concentrato nelle istituzioni politiche a uno più diffuso nel controllo della società e delle vite degli individui, insomma da un potere alla Max Weber a un potere alla Michel Foucault.

La prospettiva cosmopolitica

Si tratta dunque, da un punto di vista propositivo, di trovare articolazioni istituzionali che permettano di estendere la legittimità democratica a livello internazionale, o globale, secondo la prospettiva cosmopolitica (rappresentata per esempio da David Held, o in Italia da Daniele Archibugi), che vede gli individui partecipare alla politica globale non indirettamente attraverso le istituzioni nazionali (o, per quanto ci riguarda, europee), ma direttamente, in quanto singoli dotati di diritti, per esempio eleggendo per esempio un parlamento dell’ONU a elezione diretta.
Quale ruolo gioca, e vengo alla conclusione, la costruzione europea? La proposta europea, che può essere allargata a una sorta di federalismo macro-regionale globale, si situa, come notava Habermas nel suo saggio La costellazione post-nazionale (Feltrinelli 1999), a metà strada tra la pura governance per mezzo delle istituzioni internazionali e la prospettiva cosmopolitica.
L’UnioneEuropea si trova adesso in una situazione di parziale stagnazione che, continuando con le metafore etologiche, può ricordare quella del coccodrillo che deve digerire un grosso pasto. Gli ultimi due ampliamenti, storicamente, politicamente e culturalmente inevitabili, hanno costituito però un’eccezione alla pratica usuale di ammettere i nuovi membri in modo graduale, in modo che gli equilibri politici, economici e istituzionali interni si modificassero e si riformassero nel modo meno traumatico possibile. Questo non è potuto avvenire dopo il 1989 perché era impossibile costruire una gerarchia tra i tanti paesi che battevano alle porte dell’Europa. Per una strana coincidenza storica, è coinciso il momento in cui si prevedeva la costruzione dell’Unione con quello del necessario ampliamento reso inevitabile dall’effettiva indipendenza dei paesi dell’Europa centro-orientale. Sarà però necessario un qualche tempo prima che tutti i membri, vecchi e nuovi, dell’UE, si adattino alla nuova situazione, e questo non solo per lo strano paradosso in base al quale si preferisce non avere alcun potere sullo scacchiere globale – decidendo però in modo da difendere la sovranità nazionale – piuttosto che contare qualcosa effettivamente, ma concordando una politica europea. La ragione fondamentale sta nel fatto che la costruzione dell’unità europea è un processo sostanzialmente consensuale, e, fatto storico eccezionale, attuato senza l’uso delle armi.
Mi sembra però che, nonostante tutto, la faticosa ratifica del trattato di Lisbona dimostri che il processo, pur faticosamente, procede. Credo che gli ultimi venti anni dimostrino anche che non avremo una nuova identità (quella europea) che si sostituisce alle vecchie identità nazionali, ma piuttosto una sorta di complesso patchwork o piuttosto un frattale di identità diverse, che si combinano in modo vario, credo insomma che l’era della coincidenza tra identità politica e culturale e istituzioni sia definitivamente tramontata. Le nostre varie identità nazionali o regionali, transnazionali o locali, tutte ugualmente costruite o immaginate, continueranno probabilmente ad accompagnarci per un lungo periodo di tempo. Non dobbiamo aspettarci risultati spettacolari in periodo brevi, o la prodigiosa apparizione di una nuova identità che tutti ci unisce, ma piuttosto l’emergere di nuovi schemi di decisione, di rappresentanza e di cittadinanza.