di Nadia Urbinati
Mentre in Cina dopo l’89 il regime comunista è rimasto al potere trasformandosi in senso capitalistico e sfatando l’idea che il capitalismo fosse legato alla democrazia, in Europa l’89 ha avuto un segno opposto: ha determinato la fine di un ordine politico illiberale (quello comunista) ed ha generato euforia e speranze, ponendo fine ad ideologie ossificate e scongelando anche ad Ovest, lo status quo, ma producendo anche il deperimento, in un quadro di grande complessità, delle strategie di giustizia sociale e di solidarietà e l’affermazione di stili politici autoritari e populisti.
Il ragazzo gracile e i carrarmati
La rivoluzione del 1989 è cominciata a Pechino in primavera e ha raggiunto il suo culmine alla fine dell’anno a Berlino. Se a Berlino il Muro venne abbattuto, a Pechino la ribellione in nome della libertà è stata arginata con il muro di una relazione violenta del regime comunista-capitalista che dura ancora oggi.
La rivoluzione del’89 è cominciata con un’immagine che è ancora impressa nelle menti di coloro che erano allora di un’età capace di memoria: un ragazzo gracile e solo di fronte a una fila di carrarmati. Un ragazzo in maniche di camicia, dall’aspetto mite e assolutamente ordinario, con le braccia giù come a voler esaltare il suo solitario pacifismo, senza slogan e senza nessuno dietro di lui. La solitudie della giustizia di fronte alla forza compatta dell’ingiustizia; la mitezza del diritto di fronte alla protervia della violenza fatta regime. Quella prova di rivoluzione fu soffocata: la Cina riempì le sue prigioni di dissidenti, massacrò i dimostranti (per lo più studenti e insegnanti) e chiuse la stagione rivoluzionaria senza alcun mutamento radicale. I governi dei paesi democratici alzarono timidamente la voce ma non osarono fare di più, evidentemente schiacciati dal peso di un paese che stava ascendendo al grado di superpotenza economica e militare.
Il 1989 cinese ha avuto quindi anime o due storie: è stato l’equivalente di ciò che il 1956 fu per l’Ungheria e l’Europa dell’Est (rivolta e repressione); ed è stato una tappa importante nell’ascesa della Cina verso la modernità capitalistica. La repressione di Tienanmen ha mostrato al mondo intero che il capitalismo e la libertà democratica non stanno necessariamente insieme, come molto liberali europei e occidentali avevano sostenuto (o creduto) negli anni della ricostruzione post-bellica. La storia europea della democratizzazione nell’età della Guerra fredda è restata un fatto “locale”. La storia della precedente rivoluzione industriale europea e quella più recente storia politica dell’America Latina e del Sud Est asiatico avevano già messo in luce la difficile conciliazione tra capitalismo e ordine politico democratico. Ma certamente la Cina ha avuto l’effetto dirompente di scuotere le menti e costringere intellettuali e cittadini a riflettere sulle origini illiberali e violente del capitalismo. Relativamente alla Cina, il 1989 è stato un anno di inizio più che il coronamento della trasformazione liberale e democratica.
Euforia, e contraddizioni, del dopo-Muro
Il 1989 europeo ha avuto una traiettoria e un segno opposti. La caduta del Muro di Berlino ha significato la fine della Seconda guerra mondiale e di tutto ciò che essa ha comportato a livello internazionale e nazionale: fine del manicheismo ideologico della Guerra fredda, ma anche fine delle sovranità limitate che molti stati a est e a ovest della cortina di ferro hanno sopportato; fine dello status quo che aveva congelato l’ordine politico anche in paesi democratici come l’Italia, la quale ha infatti avuto il suo 1989, la sua fine di regime, passando attraverso una quasi-rivoluzione (fatta nei tribunali, tuttavia, non nelle piazze) a fine Guerra fredda.
La caduta del Muro ha avuto una costellazione di significati uniti da alcuni caratteri comuni, o un comune segno di liberalizzazione che si può chiamare secolarizzazione – fine degli steccati manichei, delle alleanze politiche fideistiche, ma anche fine di una visione della società giusta fondata su una dottrina social-classista. Finito il socialismo di stato, crollato il sogno rivoluzionario che milioni di uomini e donne avevano per quasi un secolo perseguito, consumata l’euforia per la caduta del Muro, il 1989 ha contribuito a rendere gli ideali di “libertà” e “giustizia” piú, non meno utopistici. Non soltanto perché nei paesi dell’Europa dell’Est la libertà civile e politica è stata accompagnata da una crescita quasi immediata di diseguaglianza sociale e dalla formazione veloce di un rampante sistema oligarchico e corrotto. Ma anche perché a quella liberazione dalle dottrine manichee ha corriposto – e questo vale soprattutto prima di tutto per i paesi dell’Europa occidentale – alla fine delle politiche e delle ideologie di giustizia sociale e alla consunzione dei partiti di opposizione, i quali si sono trovati nel volgere di pochi mesi privi di un linguaggio politico, di quello che per decenni era stato associato indirettamente o meno al socialismo marxista. Dal 1989 ad oggi, il processo di deperimento della politica di giustizia sociale si è così drammaticamente cronicizzato da lasciare quasi tutti i paesi europei, ora anche ad Est non solo ad Ovest, senza un’opposizione forte e credibile alla trasfomazione oligarchica delle democrazie elettorali e alla crescita della diseguaglianza sociale e di potere politico.
Dopo vent’anni dalla caduta del muro di Berlino, l’Europea non è più giusta e, soprattutto, non è più libera di prima dai fantasmi della discriminazione, anche se gli obiettivi, gli stili e i linguaggi sono cambiati. Nuove forme di illiberalismo e di razzismo stanno creando un’Europa nella quale la riconquista della libertà è stata accompagnata da un visibile restringimento dell’inclusione e delle politiche di solidarietà. A trent’anni dalle rivoluzioni contro le tirannie comuniste, c’è più libertà civile ed economica per i singoli e i mercati dei beni, ma non c’è più eguale distribuzione di opportunità, né più libertà di movimento delle persone, né infine c’è una libertà politica goduta egualmente da tutti i cittadini. La storia del processo democratico sembra al suo inzio; un inizio, inoltre, che dopo i primi anni di giustificata euforia registra un po’ dovunque un triste scivolamento verso forme populiste e autoritarie a livello di stati nazionali, e verso una visione dell’Europa come fortezza da presidiare anche a costo di circondarla di quasi-campi di concentramento. Dopo trent’anni, le celebrazioni per la libertà dal comunismo sono diventate riti istituzionali, mentre la vittoria della democrazia istituzionale non è ancora riuscita a dimostrare quanto davvero rivoluzionario possa essere l’ordine politico democratico.