La violenza come metodo e sostanza
Intervista con Giuliana Sgrena a cura di Severino Saccardi
Sommario: Da uno sguardo retrospettivo sull’Algeria, nel cui dramma l’Occidente non ha saputo cogliere la gravità e la portata del virus fondamentalista che lì si andava emblematicamente manifestando, ad un’analisi delle situazioni dell’Afghanistan e dell’Iraq, dove la guerra ha permesso paradossalmente l’insediamento di un terrorismo in cui le motivazioni politico-ideologiche contano più della controversa identità religiosa.
D. Tu hai scritto molto sulla questione algerina. E’ un punto di partenza certamente utile per riflettere oggi sui fondamentalismi. L’Europa o non ha visto abbastanza o non ha voluto ricavare le dovute conseguenze dalla drammatica lezione algerina. Cosa ci insegna, secondo te, questa esperienza in merito ai fondamentalismi?
R. Hai già detto che ciò che è successo in Algeria a partire dagli anni novanta a chi vi ha saputo prestare attenzione ha insegnato molto e molto avrebbe potuto essere di insegnamento per tutti quanti, ma quando si è sviluppato il movimento islamista in Algeria e man mano ha assunto, attraverso i gruppi armati, anche delle forme di violenza terroristica, questo aspetto è stato sottovalutato ed ignorato, forse per scelta deliberata, dall’Occidente. Il dato tragico e sconvolgente che i gruppi islamici armati uccidessero gli algerini in maniera così cruda e massiccia veniva affrontato solo in termini di equivoche ed inconsistenti petizioni di principio del tipo “Se si favorisce la democrazia in quel paese e se il movimento politico che rappresentava quei gruppi venisse coinvolto nella gestione del potere (perché evidentemente questi volevano arrivare al potere) se ci fosse (addirittura) un’assunzione di esponenti di tale movimento all’interno del governo questo problema sarebbe risolto…”. Evidentemente non era così. Non si è capito o non si è voluto capire quello che è il terrorismo islamico, che è così non definibile. Anche se molti sostengono che il terrorismo non possa essere riconducibile alla religione perché quella islamica ha ispirato una cultura della tolleranza, come si è visto nei secoli, non c’è dubbio che tali gruppi terroristici si rifacciano ad alcune categorie dell’islam e questo non può essere ignorato neanche dai musulmani. Infatti ci sono dei musulmani che hanno analizzato con lucidità storica e razionalità critica questa valenza politica e religiosa insieme. Ma era il dato politico complessivo su cui si sarebbe dovuto riflettere: era la gravità storica di quel che andava succedendo in Algeria che sfuggiva completamente. Se si fosse prestato attenzione a ciò che accadeva in Algeria saremmo stati più preparati all’11 Settembre. Invece c’è stata una sottovalutazione determinata da una parte dall’implicita constatazione che comunque uccidevano solo algerini e molti pochi stranieri, e quindi il dramma non ci toccava da vicino, e dall’altra, più importante e più grave, da un atteggiamento che io definirei “razzista”, che si manifesta con un relativismo culturale che vediamo all’opera anche oggi, che accredita ai paesi che hanno culture diverse dalla nostra soltanto le espressioni più “estreme e barbare” del costume civile e politico. In buona sostanza, noi ignoriamo la realtà di quei paesi, come se in quei paesi non ci fossero degli interlocutori che si rifanno ai nostri stessi valori, alla cultura democratica ed ai diritti umani. Come dar torto alle donne algerine dei movimenti democratici quando ci rimproverano di voler tenere solo per noi i valori universali della Rivoluzione francese? Davvero, se avessimo prestato più attenzione e avessimo voluto (perché penso che molta parte dell’Occidente non era neanche interessata a capire ciò che stava accadendo in Algeria) comprendere quel che di enorme succedeva nella martoriata sponda Sud del Mediterraneo, avremmo potuto essere più preparati di fronte alla successiva esplosione “globale” del terrorismo islamico.
D. Mi pare, ricollegandoci a quello che stavi dicendo prima, che, da un certo punto di vista, la realtà algerina, per come si è andata sviluppando in quegli anni all’interno di quel dramma, smentisca nettamente la tesi del conflitto di civiltà. Infatti lì abbiamo avuto musulmani che uccidevano altri musulmani: quindi, un conflitto distruttivo all’interno di una società islamica…
R. Naturalmente questo conflitto si è manifestato all’interno della stessa cultura religiosa di appartenenza, però in presenza di due differenti visioni della società: quella teocratica e quella laica, che senza disconoscere la propria appartenenza religiosa e culturale crede però che il potere debba essere separato dalla religione. Non c’è dubbio: la tesi dello scontro di civiltà viene accreditato solo da coloro che vogliono uno scontro tra civiltà. Paradossalmente da una parte c’è chi lo vuole in Occidente e quindi va a fare le crociate nel mondo arabo-musulmano, dall’altra parte c’è chi anche in quel mondo vuole accreditare questa tesi così da portare avanti la propria guerra santa contro il “Satana” americano ed europeo.
D. Possiamo dire oggi che, sia pure a prezzo di forti contraddizioni e lacerazioni e dopo un numero spropositato di drammi e di perdite umane, l’Algeria è riuscita sostanzialmente ad arginare e sconfiggere il fondamentalismo islamista armato?
R. Io penso che l’Algeria non sia completamente riuscita a sconfiggere il fondamentalismo, ma che sia sicuramente riuscita ad impedire che le sue forme più estreme ed incompatibili con la componente e l’identità laica della società algerina arrivassero al potere, e questo è già un grande merito di chi si è opposto al terrore dilagante. Il fondamentalismo armato in parte è stato sconfitto, anche se non interamente: infatti continuano gli attacchi, e quindi, visto che la soluzione che si è tentato è quella del compromesso, tutti hanno ceduto qualcosa e nessuna ha completamente vinto. Tra chi sosteneva che la questione centrale fosse quella della scelta tra una stato democratico, che escludesse la religione dal potere, ed una teocrazia al potere nessuno ha vinto completamente e comunque, nel periodo più difficile e drammatico, in Algeria, è stato un gran risultato impedire che gli islamisti arrivassero al potere e lottare perché questo terrorismo non fosse più in condizione di continuare ad imperversare con la stessa forza che aveva negli anni passati. Tuttavia, secondo me, la questione è soltanto rimandata, come era stata rimandata dai regimi precedenti, infatti gli islamisti (quelli “legali” e meno radicali, non certo quelli che sostengono i gruppi armati) hanno ottenuto alcune posizioni in seno al potere in Algeria e possono condizionare pesantemente alcune scelte del governo, come si vede adesso sulla revisione del codice della famiglia. Quindi diciamo che questo scontro è stato rinviato come era stato rinviato tanti anni prima: forse era impossibile in quel momento arrivare ad una scelta chiara e definitiva proprio per le condizioni in cui viveva il paese dopo tanti anni di violenza inaudita.
D. In termini di collegamento tra i diversi fondamentalismi islamistici quali sono i fili ed i percorsi che legano in qualche modo una questione come quella algerina a realtà come quella afghana o irachena?
R. Se ci riferiamo al fondamentalismo islamico come ideologia, quindi quell’ideologia che sostiene anche i gruppi armati del terrorismo, penso che l’origine sia proprio l’Afghanistan. Intanto perché a quella scuola (una scuola fra l’altro di origine indiana) si sono forgiate le espressioni più tipiche di questo fondamentalismo, ma soprattutto perché lì sono stati addestrati i muhjaeddin che andavano a combattere l’armata rossa in Afghanistan. Questi combattevano il comunismo e dunque erano sostenuti dall’Occidente: perché lo scontro in quel momento era contro il comunismo e quindi si erano formati tutti questi gruppi che, una volta scomparsa l’URSS, sono tornati a casa e nel loro piccolo hanno tentato di riproporre quello scontro in cui avevano combattuto in Afghanistan e, se non si combattevano più i russi, si combattevano i laici o le donne democratiche o comunque chi aveva valori diversi dai propri, per poi ritornare a combattere in Afghanistan coi Talebani o per andare a combattere il Jihad adesso in Iraq. Infatti non c’è dubbio che negli ultimi mesi siano arrivati anche degli stranieri in Iraq, perché non c’erano controlli alle frontiere e perché quello dell’Iraq adesso per il fondamentalismo islamico è considerato il terreno più propizio per portare avanti lo scontro con l’Occidente. D’altra parte, questa situazione l’hanno creata indubbiamente la guerra e l’invasione dell’Iraq da parte della coalizione guidata dagli USA.
D. Nel tuo libro Il fronte Iraq (ed. Manifestolibri, Roma 2004) tu analizzi le conseguenze prodotte dalla messa in atto dell’ipotesi di Bush, che è notoriamente quella di poter contenere e sconfiggere, se possibile, i fondamentalismi islamici con la guerra. La guerra, esprimendo una valutazione il più possibile obiettiva per la tua esperienza, ha contribuito a delimitare oppure a diffondere il fenomeno del terrorismo islamista?
R. Bush ha detto che è disposto ad accettare, anche in nome della democrazia, uno stato islamico in Iraq. Questo è un fatto. Siamo davanti a due interventi militari recenti: quello in Afghanistan e quello in Iraq. In Afghanistan è caduto il regime dei Talebani e i Talebani sono stati sconfitti, ma non sono affatto scomparsi. Come è noto, il controllo del territorio afghano è problematico non appena ci si allontana da Kabul. Prima l’Afghanistan era sicuramente uno stato islamico, e nella forma più estrema e più oscurantista, però rimane tale anche adesso, come è scritto, del resto, nella sua costituzione: certo, le caratteristiche specifiche e concrete che può assumere uno stato islamico dipende da chi è al potere. Veniamo all’Iraq. Il regime iracheno era tirannico, era sicuramente condannabile e sanguinario ed ignorava qualsiasi concetto relativo ai diritti umani provocando così all’interno della società degli sconquassi terribili, però era uno stato laico. Adesso l’Iraq rischia di diventare uno stato islamico e probabilmente non con una visione soft della Sharìa: e questo è stato il frutto della guerra. Io infatti sono convinta che se Saddam Hussein fosse stato abbattuto dagli iracheni con un processo interno la situazione sarebbe stata ben diversa. Invece l’effetto provocato da una guerra e da un’invasione è stato devastante: intanto perché ha causato immediatamente il crollo di tutte le istituzioni e quindi l’Iraq è diventato un paese senza legge e si sono sviluppate molte forme di violenza degli uni contro gli altri, invece di provocare una ri-organizzazione del tessuto sociale e di far valere la cultura dei diritti. Evidentemente, prima, la popolazione, convinta o no, non aveva diritti, come ho notato vivendo molto tempo all’interno del paese. Poi, ad un certo punto hanno cominciato ad organizzarsi e ci sono stati degli iracheni che hanno costituito un’associazione per i diritti umani ed hanno cercato di far capire alla gente che anche loro avevano dei diritti e che questi quindi andavano fatti valere. Ma l’occupazione non ha dato nessuna soddisfazione a queste aspettative della popolazione perché i soprusi continuano a prevalere nel paese e non c’è nessun rispetto dei diritti dei cittadini né da parte delle forze di occupazione né da parte delle milizie locali, che si sono molto diffuse. Infatti, quando non c’era nessuno in grado di governare un paese, perché per gli americani e tutte le truppe di occupazione l’obiettivo non era quello di mantenere l’ordine ed evitare la violenza, ma quello di controllare il paese, quindi la preoccupazione principale era di proteggere se stessi e non gli iracheni, ogni partito che non avesse già un proprio gruppo armato ne ha formato uno. Così noi assistiamo ad una degenerazione totale e non ad una riaggregazione della società e lo si vede con le forme di lotta che si stanno adottando in questo momento, come quella dei sequestri, che purtroppo credo che non siano solo opera dei terroristi che sono venuti dal di fuori, come il gruppo di Al Zarqawi: il terrorismo è indubbiamente presente in Iraq adesso, però alcune forme di lotta estreme sono adottate anche dai gruppi della resistenza e questa ritengo che sia proprio la degenerazione provocata dall’occupazione del paese. Quando sono arrivate le truppe americane a Baghdad la gente era indubbiamente contenta che non ci fosse più Saddam al potere perché aveva sofferto molto sotto la dittatura, tuttavia non era soddisfatta che questi fosse caduto con un’occupazione e non ha mai amato la presenza di tante truppe nelle città e nel paese, perché il popolo iracheno è orgoglioso della propria indipendenza e della propria cultura. Io, nel mio ultimo viaggio, ho visto non pochi iracheni risvegliarsi all’insegna del proprio orgoglio, e questo perché hanno visto che ci sono gruppi all’interno del paese che rapiscono persone arrivate lì per aiutarli. Questo ha colpito molti iracheni profondamente nel loro orgoglio e nella loro identità di membri di un popolo ospitale, che apprezza quello che gli altri fanno per loro. La situazione attuale è, dunque, caratterizzata dal peggior risultato possibile dell’operazione politico-militare realizzata con l’occupazione: c’è davvero poco di che gloriarsi dell’aver messo in ginocchio un popolo dopo averlo umiliato, combattuto e sottoposto ad embargo.
D. A che punto siamo oggi globalmente in merito al problema-terrorismo? Ci sono degli analisti che, come sai sostengono che il fondamentalismo islamista è un fenomeno feroce, crudo, cruento ma sostanzialmente destinato ormai irreversibilmente al declino ed alla sconfitta, c’è chi lo vede invece come un fenomeno espansivo, aggressivo e minaccioso. In quale delle due tesi, secondo te, c’è più verità?
R. Io penso che ci sia una verità parziale in entrambe: io ho visto la spinta ideologica più forte nel momento in cui c’è stato l’attacco ed i bombardamenti verso l’Afghanistan, forse perché mi trovavo nella zona del Pakistan dove era cresciuta l’ideologia dei Talebani, comunque vedevo da parte della popolazione, anche da parte di quella non d’accordo con Bin Laden, una reazione contro questo attacco militare occidentale con una quasi identificazione con lui: Bin Laden era diventato un po’ l’icona di tutti quanti quelli che erano contro l’Occidente, non perché contrari pregiudizialmente ai valori ed ai modelli occidentali. Molti di quelli che vedevo inneggiare a lui erano parenti degli sceicchi, che non sono pregiudizialmente contro l’Occidente, ma che anzi, spesso, ne sfruttano le tecnologie. Comunque, in quel momento io ho visto una forte reazione antioccidentale con un’adesione all’immagine di Bin Laden che rappresentava il combattente che era in grado di contrapporsi all’America. E Bin Laden, va riconosciuto, in qualche modo ha dimostrato di mantenere la propria immagine e posizione, infatti per ora non è stato catturato. Per l’Iraq è diverso: io penso che lì questo movimento fondamentalista con le sue forme più estreme di carattere terroristico non stia avendo lo stesso successo e non costituisca lo stesso richiamo che invece aveva avuto in Afghanistan: non che i fondamentalisti non vi siano, è chiaro, ma perché nello scontro in atto lì viene privilegiato il nazionalismo come forma di contrapposizione all’occupazione americana, anche se questa ha permesso la diffusione, all’interno dell’Iraq, di movimenti violenti di carattere politico-religioso con una visione estrema, che per esempio, in questo momento, si sono installati in zone come Falluja, proprio perché approfittano dello scontro in atto e del fatto che la gente qui è più sottoposta ai bombardamenti e quindi cercano di inserirsi in questa drammatica situazione puntando a galvanizzare la popolazione con la religione: là ci sono gruppi che stanno cercando di imporre la Sharìa e ci stanno riuscendo, per certi versi. Quindi può sembrare contraddittorio, ma, pure se sul terreno si stanno sviluppando e trovano spazio gruppi armati, generalmente credo che stia venendo un po’ meno quell’appeal che aveva prima il movimento fondamentalista e terroristico rappresentato da Al Qaeda (cioè da quell’agglomerato di gruppi che viene generalmente ricondotto a Bin Laden). Tra Bin Laden in Afghanistan e Al Zarqawi in Iraq, l’immagine del secondo per gli iracheni penso sia molto più negativa.
D. L’ultima domanda riguarda una questione cruciale nella discussione sul fondamentalismo: secondo te in questi movimenti sono determinanti gli aspetti e le motivazioni di carattere religioso o sono prevalenti obiettivi e finalità di carattere politico al di là della costante evocazione dei principi religiosi come elementi costitutivi dell’ identità e della mobilitazione dei militanti?
R. E’ difficile dirlo: credo che l’aspetto prevalente sia l’ideologia che si basa sulla religione, che non equivale però, sia ben chiaro, alla religiosità: infatti si vede che essi passano tranquillamente sopra alcuni concetti e fondamenti dell’islam per far valere le loro scelte e decisioni di lottare in un certo momento; si noti, per esempio, il fatto che il Ramadan sia diventato in tutti questi conflitti sempre più sanguinoso, mentre invece dovrebbe essere il mese sacro dell’islam e quindi credo che si dovrebbero riporre le armi. E’ vero che in situazioni come quelle dell’Iraq credo che si possa essere dispensati dal deporre le armi perché il Jihad contro gli infedeli è per loro un valore molto più alto del digiuno, però se poi vediamo che ormai le vittime principali di questi gruppi islamici non sono le truppe americane, ma gli stessi cittadini iracheni, anche questa motivazione non regge.Un dato sconvolgente come questo quindi mette molto in discussione il fatto che il fondamento cui questi gruppi si ispirano sia veramente l’appartenenza religiosa; io penso che sia quello ideologico-politico, qualunque veste esso assuma, l’aspetto principale che muove la loro azione e che li spinge a condurre forme di lotta politica di cui la violenza sembra essere sempre più metodo e sostanza.