di Antonella Landi
Al netto dei luoghi comuni, dei pregiudizi e della tendenza al vilipendio di cui devono fare le spese, i giovani di oggi non sono granché diversi da quelli delle generazioni precedenti: con l’irruenza, le emozioni, le aspettative tipiche dell’età. Basta soffermarsi ad ascoltarli con interesse vero, come è possibile fare in un luogo di incontro come quello della scuola, in cui l’insegnante è per anni in contatto con i problemi delle generazioni che mutano, per scoprirne individualità, storie ed elementi di ricchezza interiore e per stimolarne la curiosità intellettuale e la capacità di comprensione critica di un mondo che, certamente, è stato profondamente trasformato da quel terremoto della comunicazione che è Internet.
Gli studenti passano, l’insegnante resta
Quando le ho detto che dovevo scrivere un articolo sul tema «avere vent’anni, oggi», un’amica burlona ha esclamato: «E cosa ne sai tu, che ne hai quasi cinquanta?!». Ha ragione: quarantasette, per la precisione. Però ho un’attenuante: faccio l’insegnante. E proprio da vent’anni, tutte le mattine, trascorro il mio tempo lavorativo in mezzo agli studenti delle scuole superiori, che prendo quando sono ancora ragazzini e lascio dopo un quinquennio, quando sono quasi adulti. Quando varcano, appunto, la soglia dei vent’anni. Con tutto il male che ormai è abitudine dirne, la scuola rimane comunque il miglior osservatorio del mondo giovanile. Infamatela, sminuitela, criticatela, svalutatela pure. Ma se avrete la ventura di entrarci dentro, la scuola vi fulminerà. Perché in quelle aule non sempre aulenti, lungo quei corridoi infiniti, dentro quei laboratori surriscaldati e in quei cortili un po’ cialtroni spontaneamente ci s’illude che la vita resti ferma, che il tempo non scorra. Chi passa di lì ha sempre la stessa età. Per una innocua forma di astigmatismo cronologico, a volte ai professori si annebbiano le idee: si convincono che il tempo passi per tutti, tranne che per loro. Del resto vanno anche capiti: trascorrono le giornate a parlare di giovinezza e incertezza, ardore e amore, sogni e bisogni. Specialmente se (come me) insegnano materie letterarie, dedicano ore e ore all’ascolto di confidenze orali e alla lettura di elaborati scritti inevitabilmente legati al tema di un’età che è sempre la stessa, che non varia mai. I professori, insomma, invecchiano parlando di gioventù. A volte, ad acuire questa tendenza già di suo perniciosa, ci si mette anche il Ministero: due estati fa, tra le tracce dell’esame di Stato, troneggiava una citazione del filosofo francese Paul Nizan: «Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita». Mentre effettuavo la mia severa vigilanza passeggiando tra i banchi dei candidati, ricordo che mi pizzicavano le mani dalla voglia di afferrare un foglio protocollo e svolgere anch’io quel tema. Perché parlare dei vent’anni affascina, ipnotizza. Irretisce. Parliamone, allora.
La pratica del vilipendio facile
Però lo dico subito: se c’è una pratica che detesto è quella di dire che una volta tutto era migliore: il clima, il cibo, i valori, la società, la scuola. E naturalmente i giovani, che di questa catena rappresentano l’anello finale. È un atteggiamento predicatorio, lagnoso e castrante che non fa per nulla bene a quelli che sono l’oggetto di analisi spesso ottuse e superficiali ma, anzi, li pone in uno stato di confronto suggestionato e subordinato dal quale sanno già di uscire sconfitti. È troppo facile dire che i vent’anni della propria generazione sono stati migliori di quelli delle altre, specialmente di quelle successive. Con le generazioni precedenti nessuno osa neanche provarci perché tutti i giovani crescono con l’avvilente certezza di essere più sfortunati e meno capaci dei giovani venuti prima: del resto hanno intorno folle di adulti a ricordarglielo e a farli sentire delle nullità. Io sono nata nel 1966 e vent’anni li ho avuti negli anni Ottanta: che vergogna mi hanno fatto provare quelli più grandi di me. Dicevano che la musica di valore era finita, che i cantautori di concetto avevano lasciato il posto ai Duran e agli Spandau; che la narrativa si era fatta superficiale e volgarotta; che i valori si erano annacquati; che la coscienza politica era sfumata. Sono cresciuta sentendomi inetta e reietta salvo poi, vent’anni dopo, leggere lodi sperticate sulla musica, la cultura e la società di quegli stessi anni Ottanta ai miei tempi tanto denigrati. Così, una volta diventata professoressa e iniziata la mia quotidiana frequentazione dei quasi ventenni, giurai a me stessa che mai sarei caduta nella trappola del vilipendio facile, ma che, al contrario, avrei durato la mia buona fatica per cogliere nei giovani che frequentavo tutti i giorni gli aspetti migliori. E che, davanti a chiassosi difetti e limiti palesi, avrei provato a non fermarmi alla critica gratuita ma a risalire alle loro cause. Dei ventenni di oggi si dice parecchio male: bisognerebbe andare in giro con gli occhi chiusi e le orecchie tappate per non rendersene conto. Piovono su di loro critiche da ogni fronte. Sono materia di argomentati pamphletscientifico-sociologici e oggetto di spicciola conversazione pressappochista e popolare. Su di me, solo per questo, muovono una gran tenerezza e suscitano una sincera empatia.
Li si accusa, per esempio, di essere edonisti, di mettere l’aspetto esteriore e la ricerca ossessiva del bello al centro della propria vita, di ridurre l’impatto di se stessi sul mondo a una mera impressione fisica. Li si rimprovera di essere materialisti, di mirare al denaro, di ambire al possesso sfrenato di oggetti marcati e costosi. Li compatiamo (ma anche nella compassione mescoliamo una punta d’accusa velata) per la loro solitudine: per forza sono soli, ci diciamo, consumano i loro giorni davanti allo schermo di uncomputer e non parlano ormai se non via messaggino, Whatsapp al posto di un oratorio parrocchiale, Facebook al posto di una casa del popolo, Twitter al posto di un circolino culturale.
A volte la critica è addirittura contraddittoria: i ventenni d’oggi sono competitivi, ma sono anche arrendevoli; sono arroganti, ma sono anche fragilissimi; sono iperattivi, ma anche fannulloni. E poi la lista nera dei «non». Non leggono. Non sanno mettere due parole in croce quando parlano. Non parliamo poi di quando scrivono. Non conoscono se stessi perché non si studiano e non si analizzano abbastanza. Non accettano le regole. Non hanno il senso della responsabilità. E infine i colpi mortali dell’aggettivazione: sono cinici, disimpegnati, corruttibili, disonesti. Mi fermo qui, perché mi è già salito addosso quel malessere sordo che sempre mi prende quando leggo e ascolto queste frasi cucite addosso a una massa informe di giovani e poi, la mattina dopo, entro in classe e vedo che quella massa improvvisamente non è più informe, ma ha visi, espressioni, occhi e sorrisi unici, inconfondibili e profondamente differenti. Sono «i giovani», ma hanno un nome, una storia, una famiglia, un passato, un destino. Sono «i ventenni» e possono non piacerci, ma non ci può bastare chiuderla qui. Chiuderla qui sarebbe troppo facile, sarebbe troppo comodo. Facciamo che sia vero: facciamo che essere ventenni oggi significhi essere edonisti, materialisti, profondamente soli e prigionieri di un mondo virtuale creato da quel terremoto sociale che è Internet. Facciamo che significhi essere competitivi e arrendevoli, arroganti e fragili, incapaci di comunicare, ignoranti di se stessi, sregolati e irresponsabili. Non vi viene, subito dopo, sulla bocca una parola? A me viene questa: perché? Qualcuno ha definito quella in cui viviamo «l’epoca delle passioni tristi», il momento storico in cui il futuro non è più una promessa, ma una minaccia, la fase in cui i giovani vivono una sorta di analfabetismo emotivo, attuano la pubblicizzazione dell’intimità, subiscono la seduzione della droga, praticano il gesto estremo, naufragano nell’insensatezza nichilista.
Conta più l’esempio delle parole
Questa è l’epoca in cui gli adulti parcheggiano i loro macchinoni in doppia fila mentre hanno a bordo dei bambini, a cui mettono addosso abiti di marca già a sei anni ma a cui scordano di dedicare tempo per la lettura di buoni libri o per l’ascolto dei loro eterni turbamenti. È l’epoca in cui i genitori ridono della scuola e quando vanno dagli insegnanti lo fanno per litigarci e non per trovare un’intesa con loro, preziosa per l’educazione dei loro figli. È il tempo in cui si preferisce regalare che insegnare a conquistare, fregare piuttosto che aiutare. È il periodo storico in cui il disonesto viene applaudito e chiamato furbo e all’onesto viene riservato un epiteto che non è il caso di riportare in questa sede. È l’epoca in cui la politica ha perso il senso della grazia, dell’eleganza, del rispetto, perfino del pudore, e fa credere a chi la elegge che così è, e mai cambierà. È l’epoca in cui si consuma, s’insudicia e s’inquina come se i nostri figli non dovessero mai generare altri figli con il sacro diritto di ereditare una terra migliore di come l’abbiamo trovata noi. Eccoli qua, alcuni perché. In questo quadro, io non riesco, non posso e non voglio riempirmi la bocca di frasi offensive semplicistiche e sommarie nei confronti dei nostri ventenni. Dirò di più: visti gli esempi da cui sono circondati, questi ventenni non mi paiono neanche tanto male. Frequentati quotidianamente, guardati in faccia con attenzione e ascoltati con interesse vero, essi permettono che si scoprano in loro aspetti convincenti, quando non addirittura commoventi. Se si parla loro con passione di un libro, non vedono l’ora di iniziarlo. Se si contestualizzano autori apparentemente datati, non tardano ad apprezzarne le parole. Se si motivano allo studio per scopi non solo professionali ma prima di tutto legati al piacere personale, imparano a memoria calendari e formulari senza protestare. Se gli si fa capire che la Rete ci deve supportare ma non ci deve avviluppare, ci ascoltano. Se si spiega loro il senso profondo della difesa ambientale, all’intervallo successivo dividono la carta dalla plastica e forse esportano anche a casa il nostro insegnamento. Se poi parliamo con l’esempio, più che con la parola, allora sì che ci vengono dietro volentieri. Perché non hanno niente di meno, in dotazione, rispetto a tutti gli altri ventenni di tutte le altre generazioni. Non hanno carenze emotive se non quelle a cui non sono stati educati. Non hanno difetti di fabbricazione. Sono, in potenza, uguali a ogni altro coetaneo di ogni altra epoca: assorbenti, duttili, educabili. Laddove non funzionano, la colpa è solo nostra.