mauro_ceruti Il pensiero complesso 

Intervista con Mauro Ceruti a cura di Anna Lazzarini

D. Come ti sei avvicinato a “Testimonianze”, come rivista e come campo di esperienze culturali? La tua storia esistenziale e intellettuale è stata, e in che senso, influenzata dal richiamo di padre Balducci e di “Testimonianze” all’incontro, al confronto e alla possibile costruzione di nuovi scenari condivisi fra cristiani, credenti di altre religioni, non credenti?
R. L’incontro con padre Balducci e “Testimonianze” è avvenuto negli anni 70 ed è stato per me un’occasione fondamentale per intrecciare la mia formazione cristiana e la mia esigenza di partecipare ai movimenti nascenti in quegli anni. In particolare, terreno dell’incontro sono stati la coscienza ecologica e la necessità di pensare una nuova forma di educazione che sapesse integrare e non separare i problemi, i saperi e le discipline. Mi sentivo in un certo senso isolato, non trovando né risposte adeguate, né convincenti formulazioni delle domande nei movimenti nascenti. La rivista “Testimonianze” fu il laboratorio che ha consentito di legare il mio impegno civile e politico con la mia vocazione filosofica. Da studente di filosofia è stato un costante stimolo per tentare di tenere aperti problemi che allora tendevano ad essere chiusi dalle filosofie di ispirazione marxista e da quelle positiviste della scienza.
Questo contesto ha fatto sì che il pensiero complesso, alla cui elaborazione ho partecipato dalla fine degli anni 70 in poi, e l’incontro con i suoi primi pionieri, in particolare con Morin, Prigogine e altri, mi apparisse un incontro fecondo e necessario per tentare di individuare nuove categorie con cui pensare la natura e la natura umana, nella prospettiva della coscienza dell’uomo planetario e della coscienza ecologica. In particolare il filo conduttore che ha fatto in grado di legare queste problematiche è stato l’esigenza di pensare insieme l’identità e la diversità, l’uno e il molteplice. Sono arrivato alla necessità di pensare i termini delle coppie oppositive in modo complementare passando attraverso una riflessione sulle trasformazioni del pensiero scientifico, sulle implicazioni antropologiche dei risultati del pensiero scientifico e dell’evoluzione tecnologica della seconda metà del ’900.
Ma la mia generazione, in quegli anni, si è soprattutto cimentata sulla costruzione critica di una nuova cultura della pace. Padre Balducci e “Testimonianze” mi hanno offerto un grande impulso a leggere in modo nuovo il problema-compito della pace. L’idea che la pace non va ritenuta semplice assenza di guerra, ma come pienezza di vita nella giustizia, nella relazione e nell’ascolto dell’altro, e che è fondamentalmente dono di Dio, sollecita l’uomo ad accoglierla come assunzione di responsabilità, affinché possa diventare lievito fecondo della storia.
“Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come il mondo la dà, io la consegno a voi”. Penso che né teologicamente né antropologicamente le parole di Cristo nel Vangelo di Giovanni siano una condanna della pace come il mondo la dà, ma che ci sia l’annuncio di una pace nuova. Il mondo ha costruito leggi, culture, istituzioni finalizzate alla pace, basate essenzialmente su divieti, norme, controlli e sanzioni: in fondo, la pace come il mondo la dà, è affidata a forme di violenza finalizzate a prevenire e impedire mali maggiori.
Il cristiano affronta la difficile e paradossale condizione di vivere e agire fra la pace del mondo e la pace del cielo, fra la pace dell’uomo e la pace di Cristo. Siamo chiamati a una sfida, a una responsabilità di enorme impegno, in quanto la guerra è la più esplicita, ineludibile delle tragedie umane. La guerra appare come una smentita della fede del cristiano, della pace come Cristo la consegna. Perché è l’espressione più visibile e più violenta dell’idolatria. La guerra è sempre e comunque violenza in nome di dio, in nome di una verità trascendente di cui ci si sente investiti. La guerra è scaricare il male sull’altro. È un gioco di reciprocità nel quale ciascuno si sente esente dalla responsabilità di averla originata, di esserne in parte la causa.
E, invece, il Vangelo – la pace come è data da Cristo – è la proclamazione di una speranza di fronte a ogni evidenza umana di impossibilità della pace e di inevitabilità della guerra. La fede del cristiano alimenta la ricerca di orizzonti umani in cui l’impossibile pace può diventare possibile. E questa speranza del cristiano non ignora la cultura della pace “come il mondo la dà”, perché essa ha una funzione imprescindibile dal punto di vista della storia, ma si nutre della frequentazione della Parola, nel comandamento nuovo della carità e della misericordia.
Questo comandamento, per sua stessa natura, può essere appunto vissuto solo nella storia. Nelle radici della sua fede – nella Parola – il cristiano trova la condizione della sua laicità nella storia, della sua capacità di ascolto della voce dell’altro, del suo impegno a costruire una cultura della pace che sappia elaborare nuove logiche (umane), nuovi comportamenti (umani).
In questo orizzonte problematico e in questa direzione di senso, indubbiamente continua a collocarsi lo scavo teorico di “Testimonianze”. Ritengo che le sue priorità tematiche e le modalità con cui le propone e le apre al confronto siano non solo pienamente corrispondenti alla sua storia, ma anche alla natura e alla complessità dei problemi religiosi, culturali, antropologici e politici peculiari del nostro tempo.

D. La tua elaborazione scientifica ha assegnato un grande rilievo al tema della globalizzazione. Una problematica non facile da declinare per l’immensa complessità e varietà dei fenomeni a cui si riferisce, per la sua densità problematica e soprattutto per la portata delle scelte e delle responsabilità che essa, oggi e in prospettiva, propone all’umanità intera. E la globalizzazione ha aperto anche nuovi e forse inaspettati scenari non solo nel rapporto tra religioni, ma anche in quello tra fede e politica. Scenari in cui è difficile distinguere gli aspetti fecondanti da quelli connotati non solo dall’ambivalenza, ma addirittura dalla possibilità della lacerazione dei legami fra gli uomini.
R. Tutti i grandi problemi dell’umanità, a partire da quello della pace, oggi vanno posti sullo sfondo di quel cambiamento di scenario che siamo abituati a definire globalizzazione.
La globalizzazione ci mette di fronte una vera e propria mutazione antropologica: un cambiamento, radicalmente nuovo, anche per la nostra comprensione della storia umana sulla terra, del modo in cui l’umanità abita la terra, in quanto specie, che lega in un unico destino civiltà, popoli, individui.
Il problema della pace, così come quello dell’ambiente, della ripartizione delle risorse, dell’equità e della giustizia, non solo oggi interroga in modo profondamente nuovo la coscienza morale, ma diviene un problema ineludibile per la sopravvivenza dell’umanità nel suo insieme, come specie: i principi e gli imperativi della nostra coscienza morale si legano inestricabilmente con quelli del bisogno di sopravvivenza dell’umanità, che scaturisce dalla coscienza di specie, emersa in questi decenni, attraverso le ambivalenze del processo della globalizzazione.
Uno dei significati drammatici della nuova emergenza dell’umanità in quanto specie sta nel fatto che, attraverso il progresso della sua conoscenza, della sua scienza, della sua tecnologia, la specie umana si trova improvvisamente ad essere la prima e unica specie nella storia della vita sulla terra in grado di darsi la morte in quanto specie. Per la prima volta nella storia antropologica, la lotta fra il principio della vita e il principio della morte pare giunta alle sue implicazioni estreme.
Padre Balducci anni prima aveva offerto una rilettura del problema della pace, addirittura giungendo alla tesi secondo la quale, con la globalizzazione della condizione umana e con l’accelerazione provocata della rivoluzione tecnologica, economica del ’900, la pace è non solo un valore morale auspicabile, ma una necessità politica ed economica. Soprattutto dopo la costruzione del primo armamento nucleare cade il significato che ogni guerra assume nel dirimere le questioni e le contrapposizioni, anche quelle, caratteristiche della modernità, tra gli stati nazionali. Ogni guerra, mondiale o nucleare, avrebbe creato non più vincitori e vinti, ma solo e necessariamente vinti: emerge una coscienza planetaria come coscienza della possibilità di suicidio di una specie biologica. La possibilità di suicidio attraverso l’armamento nucleare, che può distruggere le condizioni della biosfera minimamente indispensabile per una sopravvivenza qualitativa della biodiversità o della specie umana, rende la pace necessaria. Si passa dunque irreversibilmente dai tradizionali giochi a somma zero della politica, dell’economia, della diplomazia, alla necessità di configurare una politica, una diplomazia in grado di giocare giochi in cui non vinco io e perdi tu – più o meno –, ma in cui vinciamo tutti insieme – più o meno – o perdiamo tutti insieme – più o meno – .
Dal punto di vista di una comprensione antropologica, questa lotta tra il principio della vita e il principio della morte pare essere nelle mani della responsabilità umana. Ma la costruzione della pace “come la dà il mondo” non potrà che essere la costruzione della pace nel senso in cui la storia delle nostre istituzioni, comprese le religioni, l’hanno costruita finora, perché mosse dalla logica amico-nemico e dall’espulsione del nemico-straniero. E che cos’è, infatti, nell’ultima fase della storia dell’Occidente, l’idea di guerra giusta se non una contraddizione in termini che perpetua la necessità di un fondamento violento delle istituzioni della pace? Oggi, proprio per la nuova condizione globale e planetaria dell’umanità, la stessa semantica giuridica delle più nobili istituzioni sovranazionali dell’umanità – come le Nazioni Unite – ci dice che questo termine, guerra giusta, è inutilizzabile: in futuro nessuna guerra in quanto tale sarà più possibile se non quella votata all’autodistruzione dell’umanità. Anche se può ancora sembrare ineluttabile ricorrere a “non-guerre”, chiamate operazioni di polizia o interventi umanitari, questa fase storica potrebbe essere una lunga agonia dell’umanità.
Il nuovo scenario planetario definisce condizioni antropologiche inedite che evocano possibilità umane altrettanto inedite, in grado di produrre nuove prospettive. Che oggi le possibilità umane possano fare emergere nuovi approcci culturali e dispositivi istituzionali, normativi, è auspicabile, è possibile, ma non è garantito, se non nella speranza dei costruttori di pace e di giustizia.

D. Il “ritorno” delle religioni nel tempo della globalizzazione ripropone un modo nuovo di pensare lo sviluppo della storia umana. Non si tratta solo di capire meglio il rapporto complesso e spesso drammatico tra fede e fondamentalismo, sacro e idolatria, fraternità e violenza, ma soprattutto di ripensare quella che per i cristiani è un’esigenza fondamentale:  vivere la fede nella storia.
R. Fino a pochi decenni fa, anche quando avvenivano grandi incontri interreligiosi come quello di Assisi del 1986, le tradizioni religiose erano viste come deboli, confinate in una dimensione fuori dalla storia. Nel mondo diviso in due, le religioni sembravano, agli occhi degli uomini ispirati sia dalla tradizione liberale sia dalle scienze umane marxiste, un retaggio del passato.
In poco tempo le religioni sono tornate. In tanti modi e spesso nel modo trionfalistico di quelle culture religiose sparse nel pianeta, che hanno rinfocolato e surriscaldato i conflitti locali e planetari.
Non solo per questo un cristiano dovrebbe preoccuparsi di questo ritorno del religioso, ma perché rivela qualcosa di ancora più importante: il male da sempre è all’interno dell’orizzonte del sacro. Da sempre la storia del sacro si intreccia con la storia della violenza, e non è un’evidenza che il credente, il cristiano, possa mascherare. Lo specifico della rivelazione cristiana, è la rivelazione di questo accoppiamento – violenza e sacro – nella trama storica delle società umane. Così, nel capovolgimento del significato del sacrificio da parte di Cristo, nell’assunzione su di sé, in quanto vittima innocente, dei peccati del mondo, si fonda l’esigenza di vivere la fede nella storia.
Tale esigenza tuttavia può essere messa in discussione da questo ritorno delle religioni. La consapevolezza teologica che il valore fecondante del messaggio cristiano si manifesta nella storia, cioè in un processo di secolarizzazione, chiama i cristiani a una concezione nuova del pensiero secolare, che non va confuso con il secolarismo materialista. E proprio su temi come questo, la rivista “Testimonianze” continua a offrire stimoli e contributi di grande interesse e attualità.

D. Il grande ritorno del sacro ha mutato in modo forse determinante quel tipo di pensiero secolare che fino a poco tempo fa era egemone. Assegnando alla religione un ruolo solo privato, residuale rispetto a quello della scienza e sostanzialmente incapace di corrispondere ai processi socio-antropologici e culturali,esso si trova oggi incapace di capire la straordinaria forza e autonomia del fenomeno religioso e ne ritiene cruciali solo gli aspetti più negativi: il “conflitto tra gli dei”, l’intolleranza, la violenza, il terrore globalizzato e la guerra in nome di Dio…
R. In questi anni si è parlato molto anche della crisi del secolarismo. Anche in questo caso, un cristiano, come deve preoccuparsi del ritorno del religioso, deve anche preoccuparsi della crisi del secolarismo, in quanto può essere un fattore determinante per favorire gli aspetti più intolleranti e aggressivi delle credenze religiose, e di converso rendere più chiuse, rigide e intolleranti le posizioni del secolarismo.
Il ritorno delle religioni, della guerra in nome di dio, rivela la cecità di quel pensiero scientista che ha sottovalutato il religioso, la sua forza e autonomia, intendendolo solo come fenomeno privato, residuale, superabile grazie al processo socio-economico, alle conquiste scientifiche e all’emancipazione sociale.
Un valido pensiero laico è fondamentale anche per un buon rapporto fra fede ed etica, tra fede e scienza.

D. Esiste una forte analogia tra le dinamiche profonde che oggi configurano il pensiero scientifico,  quello religioso, l’analisi etica, antropologica e culturale, la manifestazione artistica. Il principio generatore che tu privilegi, quello della “complessità”, rifiuta l’isolamento delle discipline e delle culture fra loro. E qui possiamo di nuovo ritornare a padre Balducci e ai temi privilegiati da “Testimonianze”… Il confronto-dialogo tra culture, collettive e individuali, non solo è necessario, ma è possibile solo se le culture diventano capaci di contaminarsi senza perdere la loro identità. Come rendere oggi queste concezioni una feconda chiave di lettura per affrontare gli straordinari cambiamenti socioeconomici, culturali e antropologici del nostro tempo?
R. Accelerazione, globalizzazione e imprevedibilità non caratterizzano solo i ritmi dell’esistenza umana, ma anche i saperi, nella loro totalità e nelle loro relazioni: crescono i contenuti specialistici le suddivisioni disciplinari, ma anche la loro reciproca interdipendenza.
Inoltre, scopriamo l’irriducibile complessità degli oggetti di studio dei saperi stessi (quali, per esempio, l’uomo, la mente, il corpo, la società, l’ambiente, la Terra, l’universo…) e, soprattutto, dei problemi planetari (ecologici, economici, tecnologici, sociali, culturali, politici). Tutti questi oggetti e questi problemi richiedono necessariamente la cooperazione di molto approcci e di molti punti di vista originariamente eterogenei se non distanti.
Oggi siamo ben consapevoli che tutte le teorie e le ricerche scientifiche, indipendentemente dai loro campi disciplinari, hanno una molteplicità di conseguenze sociali, culturali e anche politiche. Ma questa consapevolezza è di poco conforto, perché queste conseguenze sono spesso del tutto imprevedibili, spesso dissonanti o addirittura contraddittorie l’una con l’altra. Si pone così il problema se possa esistere un’istanza di controllo in grado di promuovere nuovi equilibri – naturalmente di natura dinamica ed evolutiva – fra il valore irrinunciabile della libertà della ricerca scientifica e la necessità che questa ricerca sia coerente o almeno compatibile con valori umani più ampi e condivisi. Ma a chi e come attribuire questa istanza di controllo?
Non è invece più possibile considerare la scienza come un’istituzione sociale indipendente, che determina con criteri oggettivi le conoscenze da ritenersi valide per determinai oggetti e in una data situazione, che la società, la politica, il diritto devono recepire più o meno acriticamente.
Tutto ciò diventa tanto più urgente in relazione ai ritmi sempre più dirompenti che oggi assumono gli sviluppi tecnologici e alla necessità sempre più frequente di pensare l’imprevedibile e, talvolta, l’inaudito. La capacità, la logica, la creatività manifestata nei nostri tempi dalla dimensione tecnologica rende la tecno-scienza fortemente autonoma, persino ingovernabile rispetto alle istanze e alle esigenze classicamente scientifiche, oltre che morali (mentre permangono i condizionamenti economici e politici).
La nostra conoscenza inoltre, in quest’universo e di quest’universo, è diventata contestuale.  Se una teoria o un modello siano o non siano validi, non è una questione assoluta, astorica, aspaziale e atemporale.  Non è una questione di vero o di falso tout court, senza precisazioni ulteriori.  Ogni teoria, ogni concetto, ogni punto di vista ha i suoi limiti di applicabilità.
Ciò che è alle radici non solo dell’umanità, ma della vita stessa, è il cambiamento, l’evoluzione, l’impermanenza, l’incompiutezza, la generatività: caratteri decisivi per affrontare i problemi dell’etica, della convivenza, dell’identità e dell’alterità.
Sul terreno dell’identità, in particolare, si scontrano due concezioni assai divergenti della condizione umana. Identità infatti, può essere una via per ridurre l’eterogeneo all’omogeneo, il dinamico allo statico, il flessibile al rigido. In ogni modo, è la parola d’ordine che impone una scelta di separare il superfluo dall’essenziale, di purificare e di ripulire, che sono termini non a caso risuonati in tutti i conflitti nazionali, etnici e religiosi più cruenti. In tal caso le identità diverse sono viste come contrapposte, come conflittuali, come mutamenti incompatibili: all’individuo spetta solo di schierarsi, o di perire.
Identità, però, può essere anche un invito a cercare di che cosa veramente si sono alimentate le nazioni, le etnie, le religioni, le civiltà, le collettività, per scoprire che identità “pure” non esistono e che tutte le nazioni, le etnie, le religioni, le civiltà, le collettività sono il risultato di difficili alchimie fra storie, narrazioni, idee, tradizioni che hanno origine in spazi e in tempi differenti, che da apporti spesso disparati creano nuove coerenze e nuove emergenze. In questo quadro ogni individuo ci appare come singolare, unico, irripetibile; ogni individuo è contemporaneamente intreccio e incontro fra identità e narrazioni differenti, ogni volta è nuovo e originale. E, tuttavia, questo stesso accento sull’incompiutezza radicale ed essenziale di ogni espressione umana, sul cambiamento e sulla creatività della specie umana, basata non sull’isolamento e sulla cristallizzazione, ma sull’interazione, l’integrazione e l’emergenza di nuove possibilità, ci dice che culture, civiltà, gruppi e collettività devono trovare un equilibrio fra chiusura e apertura, fra l’espressione delle loro singolarità e delle loro particolarità e l’accettazione degli apporti creativi che provengono loro dall’esterno: in particolare tra unità e molteplicità, tra identità e diversità.
Proprio per questo la valorizzazione delle diversità non è incompatibile, ma anzi fa tutt’uno con una nuova aspirazione all’universalità, un’universalità che non è decisa a priori sulla base di caratteristiche statiche e definitorie della specie umana, ed emerge invece dai giochi di relazione e di interazione fra le tante possibilità. Proprio per questo difendere e valorizzare i diritti umani e la democrazia nell’età della globalizzazione, significa cogliere e valorizzare i molteplici segnali di interazione culturale, politica e spirituale fra le più diverse culture, che continuano a segnare la nostra era, nonostante i perversi intrecci di barbarie vecchie e nuove e l’abisso di un’incondizionata regressione.
Questo complesso quadro teorico esige oggi nuove capacità di lettura dei problemi e di ridefinizione delle possibili risposte agli interrogativi: in questo contesto, la riforma culturale e pedagogica, oggi quanto mai urgente, può contribuire a delineare un nuovo umanesimo, in cui i molteplici saperi e linguaggi umani (letterari, artistici, scientifici, tecnologici) siano in grado di integrarsi per tracciare la prospettiva fondante di un nuovo rapporto dell’uomo con la società e con la natura.