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Generazione precaria
di Eraldo Affinati

Cosa ne sarà di Valerio?
Cosa ne sarà di Valerio, che non ne vuole sapere di continuare ad annoiarsi sui banchi di scuola ma rifiuta anche di andare a lavorare nella macelleria del padre? Stiamo parlando di un ragazzo sveglio, uno di quelli che una volta sarebbero saliti in sella al destriero diretti contro il nemico senza paura di farsi ammazzare: ti guarda e gli si accendono gli occhi, uno che capisce tutto al volo e forse proprio per questo, paradossalmente, rifiuta il sistema di valutazione che di fatto l’ha già condannato alla serie cadetta.
Come finirà Francesco che a venticinque anni cincischia con gli esami di anatomia e sta tutto il giorno a casa a picchiettare sui tasti del computer alla ricerca di qualche lavoretto? I suoi genitori, preoccupati, non sanno cosa fare. Alle dieci di mattina, ancora in pigiama, inzuppa il biscotto nel latte come faceva da bambino. Eppure io mi ricordo che alle spiegazioni era attento, non saltava nemmeno una riga leggendo Jack London, prendeva persino gli appunti sul quaderno coi disegni dei samurai, non avevo mai l’impressione di perderlo, così carico d’energia vitale, pronto alla battuta, ironico, scaltro, senza titubanze.
Fra qualche anno dove abiterà Irene, ormai quarantenne, laureata in storia, commessa da Coin, che adesso, pur essendo sposata, vive in famiglia perché col marito disoccupato non trova i soldi per pagare l’affitto? Da ragazza sembrava destinata a diventare un’archeologa: il giorno in cui impostai alla lavagna una paio di schemi sulla civiltà minoica, di qua Festo, di là Cnosso, sembrava stregata, quasi avesse sbirciato nel fondo di un fosso la perla preziosa che unicamente lei, e nessun altra, avrebbe dovuto raccogliere.
Insegno da trent’anni e questi sono alcuni esempi, recenti e già lontani nel tempo, di miei ex studenti coi quali ho mantenuto un rapporto. Ogni tanto mi aggiornano con mail sconsolate, sempre più tristi. Frequentano corsi, ottengono diplomi, partecipano a prove di selezione, spediscono lettere. Il risultato non cambia: zero carbonella, come direbbero loro. Al massimo strappano un contrattino di poche settimane. Il resto del tempo lo trascorrono a navigare in Rete.

Vite alla deriva
Tre generazioni che, a prima vista, sembrano, se non perdute, già andate alla deriva, senza essere riuscite a ottenere una collocazione stabile nel nostro mondo. A cosa voglio alludere?
Non mi riferisco soltanto a una occupazione professionale concreta e duratura. Si tratta di una ferita assai meno curabile. Intendo il perno etico che ti consente di accettare questo e rifiutare quello: lo schermo di riferimento dell’esistenza in mancanza del quale le passioni sfioriscono, gli entusiasmi scompaiono, la forza scema e il ritmo cala. Superata una certa soglia cominci a tirare i remi in barca, ti accontenti del minimo e, quel che è peggio, tiri diritto per la tua strada senza guardare intorno a te. Diventi un cavallo coi paraocchi che mangia la biada dentro il cestino.
Ho conosciuto ragazzi così: non è stato un bello spettacolo. A vent’anni mostrano già il cinismo del sopravvissuto, la maschera del reduce, la rabbia del recluso. Sono quelli che alla fine entrano in una zona di pericolo e possono finire male. Passano altri anni e li incroci nelle case famiglia dove sono stati inseriti. Stanno ancora cercando di respirare senza macchine artificiali. Uno di loro, qualche settimana fa, chiamiamolo Claudio, una sorta di campione delle ultime generazioni precarie, mi ha servito la colazione in una comunità di recupero.
Voi penserete a chissà quali clamorosi eventi in cui lui potrebbe essersi invischiato. Invece era un giovane qualsiasi, sfortunato quanto basta per giustificare la sua presenza all’interno di una struttura per tossicodipendenti, forse soltanto un po’ più fragile rispetto ai suoi coetanei. Meno capace di lasciarsi alle spalle i tradimenti degli amici, le delusioni amorose, un passato affettivo non proprio tranquillo. Ma chi, nella direzione dell’equilibrio mentale, potrebbe sentirsi al sicuro? A volte basta un minimo errore, una semplice disattenzione, ed ecco, anche noi sbandiamo di brutto. Ci siamo scambiati poche parole: sufficienti per sentire i brividi sulla pelle. Non c’è niente che possa colpirmi come vedere la mortificazione di un giovane. Al solito sarebbe facile chiamarsi fuori dicendo: io non c’entro. Ma quanti sentieri abbiamo tracciato per quelli come Claudio? Quali stelle ancora oggi vogliamo indicargli? Ammesso e non concesso che lui possa trovare un lavoro, in che mondo gli stiamo chiedendo di vivere? Uno scenario urbano di palestre e circonvallazioni, piccoli e grandi schermi, lacrime finte, sorrisi di plastica, valori infangati, fedi distrutte, cibi leggeri e saporiti. Pensiamo sul serio che tutto questo, insieme al mantenimento dell’articolo 18, possa bastare per trasformare un ragazzo in un homme ideal?