di Luca Faccenda e Marco Parri
A confronto con l’arte africana contemporanea, lei cui opere prodotte con mezzi modesti, ma appaiono cariche di un’energia vitale ormai perduta nella cultura occidentale
Picasso e l’arte africana
Parigi 1907: la rivoluzione è già cominciata! Dal Fauvisme al Cubismo il passo dovette risultare assai breve: nel 1906 e precisamente nell’autunno di quell’anno Matisse mostrò per la prima volta a Picasso una scultura africana.
Neppure dodici mesi dopo, nell’estate del 1907, Les Demoiselles d’Avignon facevano il loro ingresso rivoluzionario sul palcoscenico dell’arte, così come la scelta di oggetti africani tribali più insoliti e provocatori attecchiva nel gusto di quegli stessi artisti d’avanguardia. L’esplorazione di talune forme tra le più astratte e inusitate di queste culture, per così dire primitive, avrebbe avuto modo di espandersi in ogni direzione fino alla Grande Guerra, momento in cui gli stessi Cubisti erano già riusciti a proporre una nuova accezione per il termine primitivo che finora era stato usato per indicare quell’arte arcaica, esotica o popolare. Nessuno dunque dei grandi artisti di inizio secolo inventò il Primitivismo, neppure il grande Picasso che lo intuì e, sentendolo fortemente, se ne appropriò.
L’orrore per il non dipinto
La lezione pittorica e compositiva così rielaborata da Picasso e tornata in Africa assieme al tu¬rismo di massa degli anni Settanta e alla quale oggi si sovrappone un’idea di etnismo contemporaneo, ha permesso la completa rilettura delle regole di simmetria della figura da parte de¬gli artisti africani.
Una minima descrizione dell’inquadratura del soggetto pittorico diviene a questo punto necessaria: non vi è dubbio che queste opere abbiano assunto i margini della tela o della masonite come limite invalicabile per il soggetto rappresentato.
L’inquadratura ha come norma di comprendere dentro di sé la totalità della raffigurazione, mentre il trattamento, quasi sempre uniforme, dei fondali, rafforza la presenza simbolica, più che reale, del rappresentato. La scena si svolge dunque entro lo spazio deli¬mitato dalla cornice e l’uniformità del fondo, di solito monocromatico, solo più recentemente sfumato in colori degradanti o striato orizzontalmente, che non è mai sufficiente a dare corposità allo spazio, fa da quinta alla scena rappresentata.
Dal punto di vista compositivo questa impostazione, condivisa da molti autori, potrebbe derivare dalla tecnica del bassorilievo, la più diffusa espressione d’arte comunicativa tribale, anche relativamente recente, e genera nell’autore una sorta di orrore per lo spazio non dipinto: il tanzanese Lilanga ne è la più eclatante manifestazione. Le tradizioni induista e islamica, che nei secoli passati hanno pesantemente influenzato la cultura della comunicazione e dunque dell’arte tribale africana, partendo dal Corno d’Africa, a oriente, fino al Golfo di Guinea, si esprimevano con motivi floreali e geometrici, spesso usati per sottolineare una calligrafica sacra, di per sé già arte decorativa.
Questi influssi, massicciamente presenti anche nei bassorilievi di porte e altri elementi di arredo domestico, completamente intagliati sempre a bassorilievo, così come la decorazione di moschee, con maioliche invetriate anche soltanto in bianco e nero o i templi indù coperti di bassorilievi policromi, hanno contribuito a fondare il concetto di riempimento a oltranza del campo visivo del dipinto.
Un altro fattore determinante sulla resa pittorica dell’arte contemporanea africana scaturisce dalla qualità dei mezzi tecnici. Si tratta per lo più dell’impiego di lacche acriliche molto economiche la cui facile reperibilità sul mercato ne ha imposto l’uso, malgrado i limiti che sorgono specialmente per l’impossibilità di ottenere sfumature attraverso la velatura.
Questo impiego di colori puri, netti e vividi aggiunge, a nostro avviso, energia e vivacità ai dipinti, la cui resa cromatica può apparire talvolta sconcertante, soprattutto per accostamenti di colori contrastanti, talmente forti che la cultura occidentale e borghese, di solito avvezza a giudicare colte le velature, tanto più esse sono delicate, digerisce con una qualche difficoltà. C’è da dire che la velocità di essiccazione di queste tinte permette agli autori di sovrapporre i colori strato dopo strato creando una pittura che potremmo definire “in aggiungere” e che dichiara proprio per questo la sua provenienza, come abbiamo osservato poc’anzi, dalla tecnica del bassorilievo, che si ottiene naturalmente “in togliere”.
A opera conclusa, il dipinto o la scultura dipinta vengono verniciati con una spessa lacca trasparente, la clear vernish, una sorta di coppale che farebbe inorridire ogni pittore accademico occidentale e di cui noi avevamo frainteso l’utilità; pensavamo all’inizio che gli autori desiderassero dare all’opera finita una specie di lucentezza aggiuntiva, una “incellofanatura” che ne modernizzasse, occidentalizzandola, l’immagine finale, una specie di plastificazione, un viatico, un’invetriatura che sostituisse il protettivo vetro, caro e poco disponibile, e donasse l’aspetto finito che una cornice, quasi sempre mancante, dà a un’opera occidentale. Ci chiedevamo se gli artisti sapessero che questa specie di coppale di pessima qualità e oltretutto poco trasparente ingiallisce, come in effetti avviene, e col tempo si incrina distaccando spesso il colore dalla tela e dunque invecchia, invece di modernizzare, l’opera in breve tempo!
Ragionavamo all’occidentale
Anche in questo caso ragionavamo all’occidentale finché un giorno un giovane artista, illustrandoci alcune sue opere che stavamo scegliendo per mostrarle in Europa, ci spiegò che la spessa verniciatura protegge i dipinti, esposti continuamente, e di solito per terra, alla fortissima luce solare, da un invecchiamento ancor più precoce e che tra i due mali conveniva scegliere il minore.
Diamo per scontato che l’arte contemporanea africana possieda la stessa dignità delle produzioni artistiche tribali, riconosciute come arte africana classica in Occidente. Abbiamo adottato, nelle collezioni di arte africana che esponiamo negli altri continenti, un punto di vista decisamente antropologico, che si esprime nella scelta di assegnare a queste opere d’arte una forte valenza di comunicazione che ne consolida lo status artistico; differentemente questi documenti visuali si esporrebbero a una selezione suscettibile soltanto al riconoscimento estetico esterno alle culture che li hanno generati.
È da notare che spesso l’organizzazione del lavoro all’interno di gruppi di artisti fa pensare a quanto avveniva negli studi di pittura e scultura durante il Rinascimento italiano, così come osserva Enrico Castelli a proposito della pittura Tinga Tinga: “… e il confronto non appaia azzardato: il Rinascimento fu movimento appunto perché basato sulla potente organizzazione sociale delle corporazioni di Arti e Mestieri che prevedeva l’accessibilità delle opere alla stessa comunità degli artigiani, prima che fossero messe in mostra nelle chiese”. Del resto abbiamo potuto osservare la stessa organizzazione nel caso della pittura Mythila, India del Nord-Est, come nella pittura aborigena del Central Desert australiano e in ogni altra espressione comunicativa, attraverso un manufatto artistico, che ha come origine una tradizione maturata all’interno di una tribù, nel senso di appartenenza.
Un’arte popolare, che va verso un futuro proprio
Il viaggio che ha permesso la raccolta delle opere di arte contemporanea africana che costituiscono le illustrazioni di questo lavoro, ha come luogo geografico gran parte degli Stati africani della fascia equatoriale, la cosiddetta “Africa Nera”. Si tratta di un viaggio svolto nel presente e per presente intendiamo quel tempo istantaneo che non conosce passato o futuro e, ciò nonostante, possiede l’energia dinamica del divenire. Si tratta del tempo perfetto per documentare l’arte africana di oggi presupponendo soltanto che essa provenga, come nella maggior parte dei casi avviene, da origini primitivo-tribali e che da questo stato di grazia che definiamo il “presente” si muova verso un suo futuro proprio e indipendente dai vari sistemi occidentali (economico, star system, ecc.) che pressano da tutte le parti per plagiarla, inquinarla, infine globalizzarla, come è avvenuto e avviene sempre più spesso per le correnti artistiche che nascono (e questo non soltanto in Africa) al termine di paragone europeo-americano e che proprio per questo vengono divorate da un mercato sempre in disperato bisogno di novità, che le fagocita e digerisce molto prima che esse riescano a imporsi e dunque a modificare o almeno a influenzare la cultura contemporanea.
L’arte africana di oggi nasce, vive, viene prodotta e venduta per strada e nei mercati dichiarando così dal suo esordio la spontanea appartenenza all’arte popolare e, in quanto vera e propria madre dell’arte popolare, rappresenta molto spesso la vita di tutti i giorni, descrive gli oggetti di uso quotidiano come simboli e totem del presente, così come rievoca la tradizione spirituale comune, dunque oltremodo popolare, quando ripropone con primitiva semplicità idoli arcaici e feticci tribali che, nella popolazione che abita nei villaggi e che costituisce ancora la stragrande maggioranza degli abitanti il continente africano, rappresentano oggetto di venerazione quotidiana.
I “colonialisti” dell’arte
In un continente tradizionalmente popolato di “selvaggi e belve sanguinarie” abbiamo incontrato persone di grande fierezza e dignità, abituate a fare tesoro di quel poco che la vita, so¬prattutto dopo gli inenarrabili sfruttamenti coloniali, mette loro a disposizione. Uomini e donne che ancora conoscono il valore della madre terra e ne venerano il femminino primordiale così come è dalla notte dei tempi; che con mezzi pittorici e studi accademici veramente relativi e pressoché inesistenti riescono a produrre opere d’arte cariche di un’energia vitale ormai perduta nel decadentismo minimale contemporaneo occidentale. Nessun timore nell’uso del colore, la forma, talvolta la ridondanza scaturiscono da queste anime, il cui bisogno più impellente è quello, a nostro avviso, di testimoniare la Vita nel presente e dunque nel suo divenire.
Le uniche “belve feroci” che abbiamo incontrato in questo lungo viaggio sono alcuni mercanti senza scrupoli con relativo sciame di critici prezzolati e affaristi; francesi, tedeschi e ahimè anche italiani. Costoro, imponendo le regole più bieche del mercato dell’arte all’occidentale, allevano “autori fotocopia” che, in cambio dei dollari, sono co¬stretti a lavorare a comando su temi e scelte cromatiche più adatte a New York o a Londra piuttosto che a Dakar.
Questi colonialisti dell’arte, veri e propri negrieri in veste moderna, oltre a gettare il mal seme nel cuore di artisti di per sé straordinari e generosi, descrivono un’Africa fatta di tangenti, di alcolizzati, di prostitute e ladruncoli che noi, al contrario, non abbiamo osservato e che non ci sentiamo assolutamente di avallare. Ringraziamo invece la più parte degli Africani che abbiamo avuto il piacere di incontrare e di cui siamo stati ospiti graditi e rispettati. L’Africa ha gli stessi identici problemi dell’Europa, solo non possiede gli stessi mezzi per risolverli !
Siamo sicuri che un lavoro come questo alimenti in Occidente una più vasta conoscenza di quest’arte attraverso la quale si esprime, oltretutto, un quarto della popolazione terrestre; che questa conoscenza consenta agli occidentali di distinguere, nell’arte africana, tra artigianato etnico, produzione in serie e arte per turisti, così come noi abbiamo imparato da secoli la differenza tra una tavoletta dipinta e dorata in vendita al Bookshop degli Uffizi e un fondo oro autentico conservato in una delle sale del nostro prestigioso museo fiorentino.