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Essere Musulmani a Firenze
di Izzedin Elzir (intervista a cura di Daniele Pasquini)

Izzedin Elzir è l’ Imam di Firenze: non  una carica religiosa così come possiamo interpretarla alla luce delle nostre categorie, ma una guida della preghiera e della comunità che egli rappresenta. Nell’intervista vengono proposte puntualizzazioni su una serie di termini della realtà islamica (fondamentalismo, jihad,…), che hanno assunto, nella banalizzazione e strumentalizzazione mediatica e politica attuale, significati lontani non solo dalla loro origine, ma  anche da quelli che i musulmani, oggi, conferiscono loro. Fuori da tali fraintendimenti, c’è di che essere ottimisti sulle prospettive dell’interazione fra il mondo musulmano «di casa nostra» e l’insieme della società in cui esso viene ad inserirsi.

D. Izzedin Elzir, nato a Hebron in Palestina, è Imam di Firenze e presidente UCOII (Unione Comunità Islamiche d’Italia). Qual è stato il suo percorso di studi, la sua storia, a partire dal suo arrivo in Italia?
R. Sono arrivato nel 1991, dalla Palestina, per studiare in una scuola per stilisti di moda. Proprio allora, subito dopo il mio arrivo a Firenze, ho iniziato a cercare una moschea. Ma girando per la città e chiedendo informazioni in giro non riuscii a trovare niente. Successivamente, dovendo studiare la lingua italiana, arrivai al Centro Internazionale Giorgio La Pira, dove incontrai diverse persone, studenti e lavoratori: assieme a loro chiesi al direttore del centro se fosse stato possibile avere una sala per la preghiera del venerdì. Così è nato veramente il primo gruppo, la prima comunità islamica di Firenze. Per diversi mesi abbiamo pregato lì e da lì è nato veramente anche il dialogo interreligioso, perché quell’ambiente favoriva il confronto.
Poi la comunità ha iniziato a crescere: con l’arrivo di nuovi emigrati, abbiamo lasciato quel posto e ne abbiamo affittato un altro in via Sant’Egidio. Poi siamo cresciuti ancora e siamo andati in Piazza degli Scarlatti. A quel punto la comunità, ormai abbastanza grande, si è divisa e una metà è andata in Via Ghibellina. Infine, quelli che erano in piazza degli Scarlatti sono andati a Sorgane e la parte di Via Ghibellina è venuta qui (in Borgo Allegri, ndr). Nel frattempo è nata un’altra moschea al Poderaccio. Questa è la storia mia e della comunità Islamica di Firenze.

D. Com’è che si diventa Imam?
R. In realtà l’Imam è solamente colui che guida la preghiera: non è un ruolo, ma una funzione. Se ci sono due musulmani, quello che guida la preghiera in quel momento è l’Imam…non dobbiamo cercare di fare paragoni con i vostri sacerdoti. Se io sono stato scelto come Imam è perché probabilmente piaceva qualcosa di me, perché servivo alla comunità. Io credo che siano tanti i fedeli migliori di me. Però sono uno dei fondatori della comunità: ho dedicato – e dedico tutt’oggi – tanto tempo a questa attività. Credo sia soprattutto per questo che mi hanno nominato Imam. La mia esperienza qua faceva comodo.

D. Ci sono confessioni religiose che hanno una struttura molto elaborata. La stessa Chiesa Cattolica, ad esempio, ha una gerarchia molto marcata. Questo può essere visto ovviamente come un limite, ma può rivelarsi anche un punto di forza. Senza dubbio è più facile individuare le personalità con cui dialogare, trovare dei referenti, dei responsabili. Che alcune difficoltà di dialogo tra le nostre istituzioni e le comunità islamiche nascano da questa incapacità di trovare delle autorità?
R. In realtà la questione è molto semplice: chi vuole parlare con i musulmani del territorio, deve parlare con chi è stato eletto dalla comunità. Se la comunità ha scelto un Imam, bisogna parlare con l’Imam. Grazie a Dio nella nostra realtà – fiorentina e toscana – non c’è nessuna paura, non ci sono difficoltà. La comunità islamica si relaziona bene con le istituzioni, con i movimenti, con i comitati. I rapporti sono semplici e c’è chiarezza. Se Firenze vuol parlare con l’islam sa dove deve andare e viceversa. Di fatto non c’è alcun problema di rappresentanza. Forse altrove non si vuole fare chiarezza, perché conviene mantenere un clima di incertezza e paura.
Non dobbiamo guardare il fenomeno solo da un punto di vista. Non pensiamo solo ai limiti organizzativi delle giovani comunità islamiche. A mio avviso quando parliamo di integrazione non dobbiamo pensare ad un’unica parte che viene «integrata». Non c’è una comunità incompleta che deve essere completata dagli altri. Integrazione non rende l’idea del processo. Preferisco palare di «interazione». Non dobbiamo integrarci, dobbiamo interagire.

D. Islam e Occidente vengono presentati come due mondi inconciliabili. Anche se lei, parlando di interazione, dimostra di pensarla diversamente, sono molti i cori di coloro che sono contrari ad un incontro: che siano davvero due realtà incompatibili?

R. Ovviamente no. Mi faccio una domanda più precisa: l’islam è compatibile con lo Stato italiano o con l’Europa? Penso di sì, e la cosa è ovvia: io sono un cittadino italiano di fede islamica, un cittadino europeo di fede islamica. Allo stesso modo ci sono cittadini italiani di fede cristiana, cittadini europei di religione ebraica, eccetera. Siamo tutti cittadini, qualunque sia la nostra fede o il nostro pensiero. Quando si parla d’incompatibilità dell’islam è per creare dei problemi e delle paure. Perché, purtroppo, con le paure si vuole dominare e grazie alle paure, soprattutto chi non ha un programma politico, può governare.

D. C’è però una lunga storia di scontri e violenze difficili da dimenticare… Mentre sono stati dimenticati in fretta i buoni frutti della dominazione araba in Spagna, ad esempio, dove musulmani, cristiani ed ebrei convivevano.

R. Quello è un esempio molto buono. Noi spesso usiamo la storia per sottolineare i contrasti tra le varie fedi religiose. L’esempio che hai citato è interessante, perché dimostra come la storia non condanni l’idea di un mondo in cui le varie religioni stanno assieme.
All’epoca in cui i musulmani hanno governato l’Andalusia è stata prodotta una civiltà che non dobbiamo dimenticare, ma da cui dobbiamo ancora imparare qualcosa.

D. Parliamo di «laicità». È un termine molto dibattuto e preferisco tornare alle origini: la parola «laico», dall’originaria etimologia greca, serviva ad indicare tutte le persone della comunità che non facevano parte della gerarchia religiosa. Oggi il termine sta cambiando prepotentemente significato, e tendiamo a confondere laicità con laicismo: laico ad esempio è uno stato scevro da condizionamenti religiosi. Cosa vuol dire per lei, per una persona di fede islamica, il termine laicità?

R. Certamente nella realtà europea non si trova ancora una determinazione esatta di questo termine, perciò è un problema difficile da affrontare. Posso dire che la laicità, in senso «greco», per noi è qualcosa di molto semplice. I musulmani sono tutti laici. Non avendo papa, vescovi o altri ruoli, tutte le persone di fede musulmana sono laiche. È un problema che per noi non esiste.
Quello che non possiamo accettare però è il laicismo, o parlare di laicità come sorta di antireligione. Quasi una nuova religione, contro le religioni.
Il senso originario di laicità lo comprendiamo e lo accettiamo, per noi è ovvio. Ma, ripeto, il laicismo, per un fedele islamico, è qualcosa di poco buono.
Capisco da un lato i nostri concittadini, italiani autoctoni, che hanno vissuto un periodo storico che noi musulmani non abbiamo vissuto: il medioevo, dove c’è stato uno scontro forte tra chiesa, stati, cittadini…per noi questo è strano, perché la nostra chiesa non ha gerarchia e le comunità agiscono sempre dal basso.

D. Ma in uno stato teocratico, dove il credo religioso è anche il principale indirizzo politico, questo discorso è diverso…
R. L’islam è contro ogni stato teocratico. Siamo a favore di uno stato civile. Oggigiorno ci sono diversi paesi che si riferiscono all’islam e sono teocratici, ma questi non rappresentano l’islam. Rappresentano un alto pensiero, un pensiero loro, che non condivido e soprattutto che non c’entra niente col vero islam.

D. È il caso dell’Iran?
R. L’Iran, ad esempio, ha un suo modo di intendere l’islam, ma non lo rappresenta assolutamente. È un paese che in termini di popolazione rappresenta solo l’8% del mondo islamico. Con tutto il rispetto per questo 8%, non credo che parlando in termini generali sia l’Iran il punto su cui ci dobbiamo concentrare di più.

D. Il concetto di laicità, pensando ancora all’Iran, ha un valore molto diverso per sunniti e sciiti. Sbaglio?
R. Hai ragione. Per i nostri fratelli sciiti il concetto è vissuto diversamente. È più simile al mondo cristiano, dove c’è una gerarchia, l’Imam ha un altro valore e ci sono dei ruoli simili a quelli dei vescovi o dei cardinali. Per cui sì, direi che la questione della laicità per degli sciiti ha un senso diverso dal nostro.

D. Restando ancora sul tema della laicità, vorrei portarle un esempio. Poco tempo fa, in Francia, una legge del governo Sarkozy ha formalizzato il divieto di indossare il velo «integrale» in luoghi pubblici. Come vede un’azione di questo tipo?
R. Questo non è un esempio di laicità. Ne parlavo prima: è un esempio di come si crea una nuova religione. Credo che il mondo non abbia bisogno di azioni di questo tipo e tanto meno di nuove religioni. Basterebbe governare in maniera intelligente, nel rispetto delle religioni che ci sono, senza cambiarne le regole.

D. Certo. Però questo tema mi fa venire in mente un’altra domanda, legata alla questione dei precetti religiosi. Il Corano (come del resto la Bibbia) contiene dei passi violenti, duri nei confronti del diverso. Sono versi da interpretare o che vanno vissuti come legge? Come nasce quello che in occidente viene chiamato fondamentalismo?
R. Secondo me gli americani affrontano la questione meglio degli europei. Per loro ci sono gli estremisti ed i fondamentalisti. I primi vanno assolutamente condannati, senza se e senza ma. Ma i fondamentalisti, quelli che tornano all’origine, ben vengano!
Coloro che tornano ai testi sacri, al Corano, alla Sunna, che contiene i detti del profeta Muhammad  – la pace sia con lui -, fanno qualcosa di molto positivo.
Dobbiamo tornare a comprendere questi libri. L’Islam insegna a noi musulmani che dobbiamo pensare di vivere in un continuo riformismo. Non possiamo vivere con la mentalità o con gli atteggiamenti del corpo di oltre 1400 anni fa. Dobbiamo guardare indietro, certo, con uno sguardo al presente e proiettati nel futuro. Quello che viene chiesto agli studiosi, ai sapienti, è di fare un jihad, uno sforzo mentale per cercare di applicare il pensiero religioso, indicando come attuarlo.

D. Il termine «jihad», per l’appunto, è una di quelle cose che fa paura in occidente. Qua viene banalmente, ma in modo diffuso, tradotto come «guerra santa».

R. «Jihad» è una bellissima parola. Non è né maschile né femminile. Sia gli uomini che le donne, infatti, possono essere chiamati con questo nome. Questa bellissima parola però è stata tradotta in italiano «guerra santa» (e giuro che non riesco a capire dove sia stata trovata questa maligna interpretazione…). Prima di tutto perché le guerre sono sempre sporche, mai sante. Secondo, perché la guerra santa è un’espressione utilizzata generalmente per parlare del tempo delle cosiddette «Crociate». Per noi musulmani questo è strano. Non esiste nella lingua araba un’espressione per indicare la guerra santa. La santità e la guerra non possono stare insieme. Addirittura, i musulmani non parlano neanche di «Crociate»: noi le chiamiamo «Guerre dei Franchi». Perché è sbagliato, anche in quella circostanza, parlare di una guerra della croce. Significa attribuire le responsabilità di una guerra direttamente alla religione. Una violenza che però non è propria della religione, che è sempre strumentalizzata.

D. Abbiamo visto come non vi siano degli ostacoli, in linea di principio, ad una pacifica (e perché no, feconda) convivenza tra islam e cristianesimo, tra mondo arabo e mondo occidentale. Come è possibile realizzare questa convivenza nelle città di oggi? Mi riferisco qui al senso «alto» di città, al senso lapiriano, non solo a meri conglomerati urbani… Come si realizza una città multietnica, multiculturale e multireligiosa?
R. Prima di tutto dobbiamo essere umili, come persone. Secondo, dobbiamo puntare sul dialogo. Infine, come terza cosa, dobbiamo riscoprire le nostre fedi religiose.

D. A parole sembra facile. Ma com’è possibile far nascere il dialogo?
R. Si può partire dal rapporto umano. È la cosa più semplice. Considerare l’altro, anche se diverso, un essere umano. Basta rispettarlo come tale. A quel punto il dialogo fiorisce…

D. Un dialogo che è fiorito a Firenze ed in Toscana? Qual è oggi il rapporto tra comunità islamica e istituzioni?
R. Ringraziando Dio e ringraziando gli uomini e le donne fiorentini e toscani, abbiamo dei rapporti ottimi con la Chiesa Cattolica e con tutti i cristiani; abbiamo diversi tavoli di dialogo interreligioso in cui si parla di tutto. Abbiamo un buonissimo rapporto anche con la comunità ebraica e con tutte le altre fedi religiose.
Rapporti ottimi anche con la società civile: partecipiamo alla vita della città, siamo parte integrante del tessuto sociale, politico ed economico di queste realtà.

D. Da presidente dell’UCOII le sarà capitato di incontrare anche realtà in cui la capacità di incontrarsi è diversa. In alcune zone del Nord Italia sicuramente si percepiscono maggiori difficoltà nel dialogo…
R. Lì il rapporto più difficile è di tipo politico. Ci sono amministratori locali che cercano di vincere le loro elezioni creando paure intorno all’islam. Ma non sono preoccupato, credo sia solamente questione di tempo, dobbiamo andare avanti. Gli sforzi che stiamo facendo pagheranno.

D. Un’ultima cosa, pensando ancora una volta alla realtà fiorentina. Molto dibattuto è il tema della moschea. Quella in cui ci troviamo adesso (il centro di Borgo Allegri) è poco più di una grossa stanza, non somiglia ad un luogo di culto… Quali sono le vostre aspettative per il futuro?
R. Penso che il dibattito sia a buon punto. La realtà fiorentina è matura e positiva, abbiamo fatto un percorso con le istituzioni cittadine e con i cittadini stessi. Un percorso che, ormai, sta volgendo quasi al termine. Credo che la situazione tra poco possa sbloccarsi, che si passi dalle parole ai fatti. Tra poco potremo finalmente sederci per parlare seriamente di un progetto.

D. Pochi giorni fa sui giornali locali sono stati pubblicati i risultati di un sondaggio su questo tema, in cui la Lega Nord, trionfalmente, affermava che un fiorentino su cinque non vuole la moschea. Il dato, da un altro punto di vista, conferma però il suo ottimismo: quattro su cinque (l’80%), alla moschea «dicono sì».
R. Hanno fatto un interessante sondaggio e ringrazio la Lega, che ha speso soldi per un lavoro per noi molto utile, che ci fa sperare. Ringrazio, infatti, tutti i miei concittadini fiorentini. Secondo questo sondaggio il 16% non sa niente della questione moschea, e noi lavoreremo affinché tutti possano conoscere quella che è la situazione. Se all’80% che hanno detto di sì aggiungiamo questo 16% scopriamo che solo il 4% è contrario alla costruzione della moschea. È una percentuale che non solo ci può stare, ma è anche salutare, perché grazie a Dio non viviamo in dittature in cui tutti sono obbligati a dire sì. Ringrazio ancora la Lega perché è stato un sondaggio ragionevole, formulato in termini ragionevoli: non era un questionario contro l’islam. La nostra costituzione sancisce la libertà religiosa e nessuno, infatti, ha messo in dubbio la presenza di cittadini musulmani a Firenze o in Italia. A questa sensibilità e alle incoraggianti risposte dei cittadini non possiamo che dire grazie.