Il Cimitero degli inglesi, in Piazza Donatello, a Firenze, è un’isola di pace in mezzo al traffico cittadino. Esso contiene una «culla», una biblioteca dedicata alle differenze umane, nella quale si opera un piccolo miracolo di accoglienza ad opera di suor Julia Bolton Holloway, un’«eremita» che dedica la sua vita all’alfabetizzazione di un gruppo di rom, che l’aiutano nella cura di quel luogo-simbolo. Cimitero acattolico, esso è stato per un lungo periodo, nell’800, l’ultimo approdo di una comunità di stranieri che avevano fatto di Firenze la loro terra di adozione, ed ha la prerogativa di evocare infinite suggestioni culturali e artistiche, a ricordo di un periodo particolarmente fertile della cultura cittadina.
Un’eremita, «una culla», una biblioteca
Una piccola culla di legno, simbolo di vita nuova e di accoglienza, in un luogo insolito. Si tratta della biblioteca «Fioretta Mazzei» al Cimitero degli Inglesi in piazza Donatello, biblioteca dedicata alle differenze «umane». Infatti negli scaffali, fatti da mani rom, si trovano testi sulle diverse religioni, sull’olocausto, sugli aborigeni, sugli indiani d’America, sui rumeni e sulle donne. Un tempio del sapere dove l’iscrizione annuale è gratuita e avviene solo portando un libro, ed è così che la biblioteca si è incrementata. Esiste un tavolo sul quale si posano libri, dove la domenica suor Julia insegna a leggere e scrivere ai rom. Le lingue si scambiano e si confondono, infatti è stato fatto un piccolo dizionario con le parole essenziali italiane e romane, sul quale qualcuno ha disegnato delle figurine corrispondenti: una mela, un cavallo, un bambino in fasce, un vero e proprio abbecedario. Sulla linea del monachesimo benedettino, qui si studia si prega e si lavora in armonia. Così gli stessi rom hanno restaurato le tombe e tengono il magnifico giardino che a maggio si riempie di iris viola. Ma suor Julia Bolton Holloway[1] chi è? Lei stessa si definisce «un’eremita con la culla in biblioteca». La sua vita secolare potrebbe assomigliare a quella di tanti altri: è stata docente negli Stati Uniti, dove ha insegnato in università prestigiose, presto si sposa, ha dei figli ma in età di prepensionamento, ed è qui che c’è una svolta, entra in un convento anglicano. Sente l’esigenza di tornare in Italia e, a Firenze, per 4 anni, vive da eremita a Montebeni, assistendo alle messe di don Divo Barsotti, il cui insegnamento le resterà nella memoria e nel cuore. Poi la Comunità svizzera, proprietaria del cimitero, le concede il permesso di abitarvi, un po’ come accadde a Giuliana di Norwick che, nel Trecento, visse in un cimitero insegnando come in un suo eremo cittadino. Anche suor Julia ripete spesso la preghiera del pellegrino, che dice: «Non ho niente, non ho nessuno, cerco soltanto il dolce Gesù di Gerusalemme». Nello spirito del Vangelo, qui suor Julia ha iniziato a lavorare con i rom, ha riscoperto i valori di questo popolo reietto e sempre perseguitato, deportato e sterminato dalla società, caratterizzato da una devozione profonda e da un forte senso della famiglia. Talvolta ripenso al suo lavoro ed è chiaro che in questo luogo non sono stati seminati solo bulbi, ma ha fatto molto anche per il cimitero. Quando lei arrivò, il luogo era in piena decadenza: tombe divelte, poche piante. Ora, nonostante le difficoltà date dal maltempo che ha recentemente distrutto molti alberi, è un magnifico giardino che ben si colloca nel rumoroso traffico cittadino.
L’isola dei morti
Il luogo del cimitero venne descritto nel dipinto simbolista L’isola dei morti di Arnold Bocklin, che affascinò Freud, Dalì e D’Annunzio. É facile capire perché: esso è quasi certamente ispirato al Cimitero degli Inglesi, in piazza Donatello. Si può senza dubbio dire che il cuore di Firenze batte lì, in quella che è conosciuta da fiorentini e non come «l’isola dei morti». Il luogo venne descritto nel dipinto come dominato da un bosco di cipressi, un tipo di albero notoriamente associato al lutto e ai siti di sepoltura e anche la vegetazione si è integrata nel tempo[2]. Nel dipinto, la montagnola risulta caratterizzata da rupi scoscese, intanto su una barca una figura vestita di bianco, in piedi, accompagna una piccola bara bianca sormontata da una ghirlanda di fiori, l’acqua è ferma, l’imbarcazione procede in una calma piatta[3]. Il silenzio è «bianco», completamente privo di suoni, come si trova nell’opera di Bocklin, e l’atmosfera rimane asettica ed ovattata. L’artista non dette mai una chiave di lettura o chiarimenti sul significato dell’opera né la volle intitolare, ma nell’insieme essa sembra un sogno, una visione «onirica», volendo usare un termine moderno, e forse questo spiega il perché lo stesso Freud ne rimase affascinato. Alcuni critici hanno voluto identificare la figura in piedi del dipinto con il mitico Caronte[4], cioè colui che già nella mitologia classica aveva il compito di condurre le anime al di là del fiume dell’Ade, l’Acheronte. Uno «psicopompo », vale a dire un accompagnatore di anime, un demiurgo tra il mondo dei vivi e quello dei morti, tra l’universo sensibile ed il sovrasensibile. Per Bocklin il Cimitero degli inglesi divenne il luogo di sepoltura di Maria, soltanto una dei suoi 8 figli morti su 14, forse la creatura prediletta, deceduta a soli 6 mesi. L’ossessione e la paura della morte, per quanto riguarda Bocklin, è espressa nel suo Autoritratto con la morte che suona il violino, quest’ultima rappresentata con fare accattivante ma terribile. Sappiamo che Bocklin ebbe relazioni di amicizia con i russi e tenne il suo studio nel «Palazzo dei Pittori» in viale Milton, non lontano dalla chiesa ortodossa[5]. Nel 1907 ecco il contatto con Rachmaninoff, che volle rifarsi al suo dipinto e, nonostante avesse visto soltanto una versione in bianco e nero dell’opera dell’artista svizzero, (ne esistono infatti 5 versioni) sembra che comunque questa bastasse ad ispirarlo per la sua opera 29. Il musicista rimase affascinato dalla cupezza del soggetto e lo considerò un tema ideale per un poema sinfonico. Il richiamo alla natura, anche per il brano musicale, è d’obbligo, la melodia rende bene l’idea di una natura statica e misteriosa, priva di vita, ogni azione è ferma e raggelata; quindi all’inizio la partenza consiste in un pianissimo. Nella musica di Rachmaninoff c’è qualcosa di spettrale che avvolge via via chi ascolta e viene sottolineato dall’apertura delle arpe, degli archi gravi, del clarinetto basso, dei corni e dei timpani. Il contrasto tra la vita e la morte è accentuato dal Dies Irae, canto gregoriano molto caro e affine al musicista russo. Il brano inizia con il suono onomatopeico dei remi della barca di Caronte che incontrano le acque del fiume Stige. Ricorre il tempo in 5/8, che simboleggia il ritmo del respiro e l’allusione alla vita che si intreccia con la morte, come in un in un abbraccio serrato. Al di là del fascino del luogo, il dipinto di Bocklin, così come il cimitero, è simbolo di un passaggio esistenziale e ci avverte quale atto d’amore sia quello di accompagnare alla tomba.
Un luogo-rifugio
Un luogo-rifugio fu considerato questo cimitero, specialmente per chi giungeva a Firenze e aveva la sorte di finire la vita in terra straniera. Destino che non voleva dire solo morire all’estero, ma lasciare i propri cari desolati, come si vede nella scultura, di Auteri Pomar (1873), di Giulia Savage Landor che piange sulla tomba del figlio. Una condizione di disagio quella di ammalarsi e morire in una terra non nativa, soprattutto per chi non era di religione cattolica. Infatti, spesso, nel momento più delicato del trapasso, veniva a mancare l’assistenza spirituale, oltre al fatto che per gli stranieri non cattolici esistevano limitazioni nelle sepolture e per questo la stessa Chiesa Evangelica riformata (Svizzera) si attivò per costruire un cimitero acattolico. Esso, per la vicinanza all’omonima Porta, edificata da Arnolfo di Cambio e rafforzata da Michelangelo, fu chiamato di Porta a Pinti e inaugurato nel 1828. Il cimitero deve essere considerato ancora oggi un luogo internazionale ed ecumenico. Nel passato venne impiegato per 50 anni, dal 1827 al 1877, un’isola «degli stranieri», costruita dall’architetto Reishammer, in un territorio come quello fiorentino che risultava, specie nell’Ottocento, costituito da una popolazione piuttosto omogenea. Lo potremo definire un «enciclopedia » di etnie diverse e di insediamenti eterogenei, un’isola sepolcrale, un libro da sfogliare le cui pagine sono costituite dalle tombe che significano diversità, ma nello stesso tempo ricchezza umana e culturale. Un «giardino della memoria» non solo dell’Europa, ma del mondo intero. Il nome di Cimitero degli inglesi non indica l’appartenenza, ma la prevalenza di tombe, esse sono infatti 709 su 1409, le rimanenti sono di 16 nazionalità diverse e per noi è un incipit che ci fa iniziare proprio dal mondo britannico e dalla folta presenza inglese e protestante a Firenze, di cui il cimitero è un eloquente specchio di varietà. La denominazione, passata dall’uso popolare, è soprattutto dovuta al prestigio che godeva alla metà dell’Ottocento l’Inghilterra Vittoriana e il fatto che allora il termine «inglese» era sinonimo di «protestante». Nella seconda metà dell’Ottocento un terzo dei cittadini era costituito da stranieri, molti dei quali erano di provenienza anglosassone, ma, già nei secoli passati, c’erano a Firenze non solo inglesi, ma pure svizzeri, francesi, russi, polacchi, ungheresi, tedeschi e statunitensi. In un ambiente depresso socialmente ed economicamente, si inserivano comunità straniere e un protestantesimo liberale che aveva un grosso impatto sulla società locale. Camminando nel giardino si possono trovare tombe di protestanti, anglicani, ortodossi, atei ed anche il livello sociale è molto vario, infatti la morte è la grande «Livella» perché annulla le differenze sociali e mette insieme nobili e plebei, servi e padroni, ricchi e poveri e spesso possiamo leggere iscrizioni nelle lingue antiche, in greco, in latino, in ebraico, in cirillico o dediche e preghiere perfino in rumeno. I nomi dei cittadini britannici restarono spesso legati alle loro residenze extraurbane, specialmente alle ville nella collina di Fiesole che, dopo i passaggi di proprietà dai Medici ai Lorena, passarono in mani inglesi[6]. Dunque una colonia numerosa, quella della perfida Albione, di cui fecero parte il poeta e prosatore Walter Savage Landor e suo figlio Arnold, amico dei Browning, sia di Robert che di Elisabeth, poetessa e scrittrice inglese molto ispirata dalla bellezza della città di Firenze. La sua tomba, nel cimitero, fu scolpita da Francesco Giovannozzi, sul sepolcro dove compare, come un’icona, la catena della schiavitù, ma spezzata. La celebre coppia inglese seppe riunire, nella sua casa in via Maggio, un celebre «salotto» di intellettuali, che Elizabeth immortalò in un celebre romanzo intitolato Casa Guidi Windows, risultato di un Risorgimento aperto e pieno di speranza. Molti dei frequentatori di questa dimora formarono una colta comunità, che non solo amava collezionare antichità, ma viaggiare, leggere e scrivere moltissimo. Fra le curiosità del cimitero c’è da sottolineare la presenza di una folta colonia svizzera che dalla metà del Settecento si era inserita nella società fiorentina con entusiasmo e determinatezza. Erano nella maggior parte engadinesi, dediti al commercio, con negozi specie nel settore del caffè – le drogherie come quella de Il Panone dei Fent o il Gilli in via Calzaioli. Gli svizzero-tedeschi arrivarono soltanto nell’ultimo quarto del secolo. Nel cimitero è accolto anche Gian Pietro Vieusseux, rimasto celebre per il suo celebre «gabinetto» letterario. Agli inizi del XX secolo si ebbero i primi insediamenti della comunità russa. Fino al Concilio Vaticano II, i cattolici consideravano la chiesa russo ortodossa come scismatica, in conseguenza di ciò i russi non avevano diritto ad essere sepolti nei cimiteri cattolici. La Chiesa romana aveva, infatti, dettato regole ben precise e restrittive riguardo alle sepolture per i non cattolici. In principio i russi morti agli inizi del XIX secolo vennero sepolti a Livorno, perché Firenze non aveva un cimitero acattolico. Con l’istituzione del Cimitero degli inglesi a Firenze la situazione cambiò molto per i russi e sappiamo che durante il periodo della sua maggiore attività vi furono sepolti 54 membri, quasi tutti rappresentanti di ceti molto abbienti, giunti in Italia per curarsi con i loro servitori, fra questi Kasincev o la negretta portata come schiava, Kalima, battezzata come ortodossa[7].
Firenze, meta ambita degli artisti
Firenze divenne una meta ambita del Grand Tour delle élites culturali europee e specialmente dei russi. Gli artisti furono attirati dall’arte e dall’imparare, come il pittore Zeleznov, la cui figlia riposa nel detto cimitero e Eduard Bosse[8], originario di Riga, che venne a Firenze con tutta la sua famiglia. La comunità russa comprendeva tedeschi, moldavi, finlandesi[9], ma anche polacchi, da considerarsi tutti sudditi dello Zar di Russia, il cui impero era all’epoca molto vasto. Si è notata una prevalenza di tombe di questa etnia nella parte alta della collina e l’ultima sepoltura russa è stata quella del ballerino russo Poljakov, morto nel 1996. Molte persone sepolte in questo cimitero potrebbero essere definite anglo-americane, avendo trascorso parte della loro vita tra l’Inghilterra e l’America e Firenze: è il caso di Arthur Hugh Clough, poeta nativo di Liverpool la cui famiglia si trasferì in South Carolina, a Charleston, ma lui ritornò in Inghilterra nel 1828. Negli anni Cinquanta dell’Ottocento Clough divenne professore di Letteratura inglese all’University College e poi tutor a Cambridge, in Massachussetts. Morì a Firenze nel 1861. La sua tomba è decorata con geroglifici egizi, provenienti dalla celebre spedizione di Champollion e Rosellini. Molti intellettuali che qui riposano lottarono per abolire la schiavitù. Lo scultore americano Hiram Powers esordì modellando figure in cera nel 1837 e trascorse molto tempo a Firenze, le sue opere in stile neoclassico furono apprezzate e fra le più celebri si annovera La schiava greca, del 1843. Elisabeth Barret Browning scrisse un famoso sonetto a Powers, che si rifaceva a questa scultura esponendo le sue idee contro la schiavitù. Anche Francis Trollope, sempre sepolta nel cimitero, fu autrice di molte opere di critica sociale, come nel romanzo Michael Amstrong: Factory Boy, dove volle denunciare la pratica dell’uso dei minori nelle fabbriche. A questo primo romanzo seguì Jonathan Jefferson Whitlaw, opera contro la pratica dello schiavismo. Tutti gli scritti di Fanny, questo era il nomignolo che gli avevano dato i compatrioti americani, dimostrano un acuto senso di osservazione e una forte grinta di toni. Essa trascorse i suoi ultimi vent’anni a Firenze, dove morì nel 1863, vivendo con la famiglia in un villino in piazza Indipendenza noto come «Villino Trollope». Il cimitero annovera antischiavisti di eccezione, come Theodore Parker e Richard Hildreth, che portarono avanti ideali di riforma sociale, soprattutto in chiave abolizionista. Tra Fiesole e il Cimitero degli inglesi esiste un sottile legame come quello che passa tra la vita e la morte. Fiesole fu il luogo più amato dagli stranieri, restava magico per vivere e lo fu per molti di loro, tra i quali spicca lo stesso Arnold Bocklin, che acquistò la villa di Bellagio a San Domenico di Fiesole e ci dette testimonianza della sua difficile condizione di esule in alcune sue parole: «Ho comprato una villa (…) così finalmente ho una patria dopo aver a lungo girovagato come un vagabondo senza patria». L’artista trovò finalmente «la sua isola» dove approdare, un’isola dei morti in Fiesole dove si spegnerà nel 1901. Sarà poi sepolto nel cimitero degli Allori, al Galluzzo, il cimitero acattolico che venne costruito dopo quello di piazza Donatello.
Riferimenti Bibliografici
Molti dei libri sul Cimitero degli inglesi, da me consultati, si trovano nella sua Biblioteca e Bottega «Fioretta Mazzei».
I luoghi della Fede sul sito web: web.rete.toscana.it/Fede/ricerca/sp?lingua=italiano.
[1]Da uno scritto di suor Julia: «Ho un computer, ho in prestito una macchina fotografica digitale ma trovo che le cose preziosissime sono la trasparenza dell’acqua, la luce del sole fra le tombe nelle immagini che fisso con essa. Il bambino rom di 7 giorni che ho battezzato il giorno di San Lorenzo del 2002 quando la pioggia sembrava non volesse più cessare. Adesso insegno alla sua mamma Hedera ortodossa rumena a leggere e a scrivere. Realizziamo nella bottega
culle che vengono vendute per aiutare lei e i suoi tre bambini ad avere una casa in Romania. Sono un’eremita che si occupa dei bambini, delle famiglie del nostro mondo! Sono una studiosa anomala con una culla in biblioteca». E poi ancora: «Non siamo macchine, ma carne e sangue, meravigliosamente creati dal nostro Creatore e dobbiamo stare in armonia con la Creazione».
[2]Alcuni Diari del XIX secolo descrivono la fioritura e la bellezza rigogliosa delle piante nel detto cimitero, si soffermano sulle rose. Nel corso degli anni si è tentato di ricostruire il giardino romantico originario, i bulbi di iris vennero piantati circa sette anni fa per ricordare che questo è il simbolo della città. Per costruire l’interno della casa, nel 1860, si è impiegato il legno dei cipressi che si trovavano nelle vicinanze. Curioso quello che il poeta Savage Landor diceva sul giardino: egli dichiarava di amarlo perché «non troppo preciso».
[3]Dante, nell’Antiferno della Divina Commedia, descriveva una coltre atmosferica «senza tempo tinta», che ben si adatta a quella del dipinto di Boklin.
[4]Caronte è già descritto da Virgilio nell’Eneide (Libro VI), durante la discesa agli inferi di Enea: «(…) dalle lanose gote e dagli occhi come cerchiati di fuoco ». Ha tratti demoniaci ed è strumento della giustizia divina. Ma qui, nel caso del dipinto di Bocklin, sembra più simile ad un fantasma.
[5]Il «Palazzo dei pittori» in viale Milton, situato sulla riva meridionale del torrente Mugnone, è stato riaperto al pubblico in occasione dei 150 anni di Firenze Capitale, il 16 maggio 2015. Esso era in origine destinato a studi di artisti e fu edificato dall’architetto e ingegnere Tito Bellini nella seconda metà dell’800 per ospitare artisti di varia nazionalità, in particolare tedeschi, inglesi, russi, svizzeri ma anche italiani già operanti al tempo di Firenze Capitale. Si tratta di una costruzione del «periodo umbertino» ed esso fu sede di una prestigiosa «Scuola fiorentina di pittura». Vi alloggiarono anche Gabriele D’Annunzio e Mario Luzi. La chiesa ortodossa che non è lontana dal «Palazzo dei pittori» fu consacrata nel 1902 e dedicata a San Nicola, in ricordo dell’omonima cappella dei Principi Demidov, la famiglia russa più ricca e influente a Firenze.
[6]Ricordiamo, a proposito di Fiesole, la presenza di Lady Orford, che acquistò Villa Medici nel 1772, poi divenuta Villa Spence nell’Ottocento. William Blundell Spence, pittore, scrisse una guida di Firenze che pubblicò nel 1852 ad uso dei visitatori anglosassoni. Anche la collina di Careggi fu abitata dagli stranieri, con la Villa omonima affittata da Lord Holland nel 1845.
[8]Bosse lavorò molto agli Uffizi come copista.
[9]Fra i Finlandesi si cita August Karlovic de Mannerheim, rappresentante di una nota famiglia finlandese, che fu spesso ospite dei Demidoff. La sua tomba è una stele con due angeli in rilievo.